Verrebbe voglia di scomodare Cechov o Pirandello nel leggere questo racconto di Giovanni Russo, essenziale nella scrittura ma denso come un uovo. Incalzante e vorticoso com’era appunto nello stile di Cechov, introspettivo alla maniera del Nobel agrigentino, I lacci bianchi di Russo, grande giornalista, saggista, meridionalista e testimone della luminosa stagione di “Il Mondo” di Pannunzio, costringe il lettore a ripensare alla guerra, la seconda guerra mondiale, da un’ottica inusuale. Non ci furono, suggerisce l’autore, solo i soldati caduti sul fronte o i civili uccisi dalle rappresaglie e dai bombardamenti. Morti che ogni guerra, più o meno cruenta, ma sempre inutile e folle, mette cinicamente in conto. Altre tragedie riguardano la coscienza: di chi a quella guerra, rischiando sulla propria pelle, si sottrasse disertando ma anche di chi da quella guerra ricavò inizialmente onori e benessere, prima di subire la vendetta popolare.
È ammirevole il modo in cui Giovanni Russo, che non perde mai il suo estro di navigato inviato speciale, condensa tutto questo in un racconto di venticinque pagine, in perfetto equilibrio tra l’incedere degli avvenimenti e i dialoghi. Uscito da pochi giorni nella collana Chicchi dell’editore Manni, I lacci bianchi è la storia di un antieroe. La storia di un povero soldato, Lorenzo G., che, disgustato dalla guerra, lascia il fronte e se ne torna al suo paese, nel Sud dell’Italia, dove è costretto a scontrarsi con il potente gerarca locale. Per dar conto del suo deplorevole ritorno, Lorenzo viene convocato nella sede del Fascio, ma è una trappola alla quale non riesce a sfuggire. Nel foga del discorso, si tradisce confessando ingenuamente di essere fuggito da una guerra insensata che non lo riguarda («ho capito che era inutile, che non ne valeva la pena. E non è giusto morire per niente») e non si accorge che le sue parole vengono raccolte da un gruppo di testimoni nascosti nella stanza accanto. Ridotto in manette, si salverà dalla pena di morte ma assisterà all’impiccagione di un ragazzo che faceva il fabbro e la cui sola colpa era quella di aver contestato il gerarca. Nel racconto emerge drammaticamente la figura della madre del fabbro che urla le sue disperate domande e non vuol credere alla morte del figlio.
Di contro, a difendere dalla furia del popolo, a guerra finita, il delatore fascista, ci sono solo l’anziana madre che, inginocchiata sul balcone di casa, inscena giaculatorie per dargli il tempo di fuggire, e sua moglie, donna dalla quale il gerarca non ha mai ricevuto veri gesti d’amore. Nessuno stereotipo, però. Russo sa il peso disumano della violenza e la tenerezza della pietà e a questa si rivolge a conclusione di un racconto che si fa leggere tutto d’un fiato.