È un tempo malato il secondo dopoguerra. Anni segnati da una ciclotimia disperata, straziata dall’oscillare tra l’euforia del futuro ritrovato e l’abisso delle tragedie appena vissute. Troppo vicini il fascismo, il sangue, i bombardamenti, la morte inutile vissuta di famiglia in famiglia come un destino. Perfino la storiografia seria ha arrancato nel cercare di trovare confini e radici. Ma come per ogni tempo malato è la letteratura, spesso, l’unica vera consolatrice, capace di aprirci gli occhi e aiutarci a comprendere qualche brandello in più di noi stessi. I lacci bianchi di Giovanni Russo è un piccolo racconto, edito da Manni in una collana che non casualmente si chiama “Chicchi”. L’episodio che Russo ricostruisce si svolge in un paesino indeterminato di un meridione italiano abituato a vedere la fortuna di spalle. Siamo, per l’appunto, nell’immediato dopoguerra. I protagonisti sono tre: Lorenzo G., il reduce; l’avvocato, fascista e delatore; la folla del paese.
Lorenzo G. è più di un sopravvissuto, è il soldato che riappare inaspettato. La sua storia è doppia perché doppio è stato il suo ritorno. Non è la prima volta, infatti che rivede il paese: già una prima volta Lorenzo aveva reagito allo sfascio morale del suo paese, gettando la divisa e dirigendosi a casa. Era successo quando, lacero e ferito, era stato redarguito da un ufficiale da retrovia, uno da lustrini e arroganza, per il suo aspetto. E lui in quel momento capisce che «non è giusto morire per niente». Ma quel ritorno non era passato inosservato all’avvocato, al gerarca, che lo aveva denunciato per diserzione, convinto di vederlo partire verso una morte certa.
Il secondo ritorno di Lorenzo G. apre quindi un capitolo nuovo, «la vendetta». Ed è la folla a scandirlo, a più voci, con un coro che recita le pagine più emozionanti scritte da Giovanni Russo. Perché la stessa folla, che l’ha visto partire due volte e due volte tornare, oggi sposa a gran voce le ragioni del disertore e reclama il sangue del delatore. È questa marea indistinta a raccontare a Lorenzo che la sua ragazza di un tempo oggi è sposa dell’avvocato. È la folla a nascondere l’urlo autentico di una madre che proprio da Lorenzo G. riceve la conferma della morte del figlio.
Quel che succede è utile leggerlo. Qui basta dire che Lorenzo G. non cercherà vendetta, che l’avvocato morirà ma non sarà ucciso. Che la folla non si placherà neanche di fronte al sangue. Come Giovanni Russo cerca di farci capire, noi lettori di oggi non possiamo identificarci né con la vittima, né con l’aguzzino. Ma siamo, e siamo sempre stati, la folla: in silenzio di fronte alla violenza subita dal singolo, acclamante quando, protetta da se stessa, può governarla.