Giuseppe Antonelli, Lingua ipermedia

15-10-2006

Scrittori d'Italia, che lingua parlate?, di Lorenzo Tomasin

Una letteratura senza rapporti con la tradizione (con la lettura, persino), che risillaba senza mediarli gli input di un imperante linguaggio mass-mediatico, vivendo all’ombra di un generico parlato e uccidendo progressivamente la nozione stessa di scrittura narrativa: ma sarà proprio questo il romanzo degli anni Novanta?
Per il suo attraversamento dell’ultimo decennio letterario, Giuseppe Antonelli parte dal giudizio nel complesso (pur se talora implicitamente) negativo che una certa vulgata ha imposto per il panorama del nostro romanzo contemporaneo. E ne rovescia abilmente gli assunti, gettando le basi per un dibattito che di sicuro impegnerà i prossimi anni, e piantando qualche paletto, terminologico e concettuale, forse non transitorio. Sullo sfondo di cinque, densi capitoli –e in filigrana, dello stesso titolo complessivo–, la metamorfosi dell’italiano tardo-novecentesco: mutazione che ha portato la vecchia lingua letteraria usata da un’élite di Arcadi a diventare la “lingua media” di decine di milioni di parlanti e scriventi (anzi di parlanti-scriventi, con sfondamento sistematico di antiche paratie).
Naturale che ciò si ripercuota sulla lingua letteraria; in particolare su una narrativa –quella di autori come l’archegeta Tondelli, e poi ancora Tiziano Scarpa, Aldo Nove, Carlo Lucarelli, Michele Mari, per restare a quelli forse più spesso chiamati in causa da Antonelli– la cui distanza dalla tradizione non va scambiata per spontaneismo o per mancanza di mediazione culturale. Tutto al contrario, a essere crucialmente cambiati sono i punti di riferimento di un lavoro stilistico ossessivo, addirittura più estremo che nel passato: «Si ribalta l’ordine tradizionale; il prius diventa la lingua; il come viene prima della cosa, in un hysteron proteron che ancor oggi scandalizza –chissà perché– tanta critica letteraria».
Per questo nuovo assetto Antonelli propone il marchio di «lingua ipermedia»: dopo quella standard conquistata dalla narrativa degli anni Sessanta (emblematica la descrizione della narrativa italiana nel 1963, con Ginzburg, Levi e Calvino sullo scaffale delle novità), e quella neo-standard di cui si è parlato per tanta parte della produzione dei tardi anni Ottanta, l’ultimo decennio approda a un neo-neo-standard.
Qui descritto nei suoi segni particolari: enfatizzazione dei tratti dell’“italiano medio” ormai affermatosi a tutti i livelli della comunicazione; neoespressionismo e ludismo verbale spinto, che però «non sempre si nutre di letteratura, ma anzi spesso s’ispira al rap, alla pubblicità, all’enigmistica» (tutte fonti di cui la letteratura “tradizionale” semplicemente non poteva disporre, non a caso, Arbasino ha intitolato ben due sue recenti raccolte Rap); agonismo con i nuovi media, dal cinema all’informatica. In una società sottoposta a un continuo bombardamento mediatico, la lingua dei narratori diventa «precipitato letterario dell’overload informativo», rischiando al limite di gareggiare con linguaggi nuovi in un confronto, avverte l’autore, dagl’incerti risultati. Una soluzione anticlassica, manieristica, espressionistica finché si vuole: ma appunto letteraria. E magari tale alla seconda potenza, secondo procedimenti tipici del postmoderno. Ecco, vien da pensare, il perché dello scandalo dei critici di cui sopra, o almeno, forse, della diffidenza, di molti lettori: se dopo gli eccessi tardo-novecenteschi un certo “ritorno all’ordine” sembra caratterizzare più di qualche titolo degli ultimissimi anni (uno per tutti: Con le peggiori intenzioni di Piperno, qui citato a tal proposito) sarà forse perché «la stagione della lingua ipermedia è già finita», come l’autore ipotizza in sede di Prologo. Perché, in altre parole, le ragioni della lingua hanno alla fine prevalso su quelle dell’iperlingua.