L'autore è elementare, di Paolo Di Paolo
Che lingua parlano i nostri scrittori? Giuseppe Antonelli, docente di Linguistica italiana ma anche narratore (Trenità) se lo chiede in un saggio dal titolo Lingua ipermedia. La parola di scrittore oggi in Italia. Da «papà» Tondelli alla Santacroce, da Camilleri alla Mazzantini, non manca nessuno. Spiega a “Stilos”: «Gli anni di cui mi sono occupato (dal ’93 al 2002) sono stati quelli degli esordi di massa, del giovanilismo forzato e dei pronipoti di Gadda. La funzione-Gadda era sulla bocca di tutti: una facile formuletta buona per ogni occasione, come se fare i Contini si fosse ridotto a un diminutivo. E allora la domanda che mi sono posto è stata: davvero per capire la lingua di questi scrittori bisogna tornare a Gadda? Possibile che non ci sia scrittura complessa al di fuori di quella linea? E mi è parso chiaro che il problema era negli strumenti tradizionali di analisi, ormai inadatti a una lingua così contaminata. Da qui la lunga riflessione sul metodo; da qui l’idea di un’etichetta come quella di lingua ipermedia».
Quali sono i tratti linguistici più evidenti nella narrativa italiana dell’ultimo decennio che sono emersi dalla sua ricerca?
Verso la metà degli anni Novanta c’è stato un passaggio dal minimalismo al massimalismo stilistico. Dalla lingua media, imposta dall’italocalvinismo più o meno ortodosso, si è passati a una lingua «ipermedia». Ovvero a una lingua più media di quella media (come in Aldo Nove o in Paolo Nori), a una lingua oltre la lingua media (Scarpa su tutti) e a una lingua in concorrenza coi nuovi media (penso all’inizio di Destroy, in cui la Santacroce fa interagire 17 tracce di discorso, come in un registratore a più piste). Più in generale, un certo sperimentalismo linguistico era di moda, faceva tendenza; rappresentava il cosiddetto mainstream.
Il consolidamento di un italiano che lei definisce «neo-standard» va anche nella direzione di una maggiore volontà, da parte degli autori, di essere traducibili? Che ragioni ha?
Oggi la stagione della lingua ipermedia è già finita. Casi editoriali –prima che critici– come Non ti muovere, Vita o, da ultimo, Con le peggiori intenzioni sembrano preludere a un ritorno all’ordine: romanzo benfatto, intreccio, personaggi e lingua tradizionale. Se si guarda alle classifiche, la sensazione è che il punto di riferimento stia diventando la lingua corretta, scorrevole, pacatamente brillante o moderatamente letterata delle traduzioni. Oggi la narrativa italiana vende di più, ma sempre più spesso la sua scrittura somiglia a quella dei libri stranieri così come li conosce il pubblico. Gli editori l’hanno capito e mi sembra di avvertire –nell’editing e prima ancora nella selezione dei testi– una forte spinta all’omologazione sul «traduttese».
E il dialetto? Da qualche parte lo si insegna nelle scuole, ma i nostri narratori –camillerismi a parte– in che conto lo tengono? Che uso ne fanno?
Negli anni Novanta il recupero del dialetto è stato una delle strade per allontanarsi dall’italiano anonimo dei mass media. C’è chi ha continuato a usarlo come un dialetto per difetto, buono per ambienti degradati e personaggi emarginati. Ma c’è anche chi, sull’onda di quello che succedeva in musica e nei linguaggi giovanili, ne ha fatto un dialetto per dispetto, una forma di trasgressione espressiva, magari ingenua ma liberatoria. Qualcuno è stato in grado di costruire intorno al dialetto un personale impasto linguistico: un dialetto per idioletto, come nel Guccini delle Croniche epafaniche e nel Santi del Diario di bordo della rosa. Quello che ha avuto più successo però –e quindi l’unico a sopravvivere oggi– è il dialetto di Camilleri: il ritorno alla commedia delle lingue, la rivincita delle macchiette d’avanspettacolo; in altre parole, il dialetto per diletto.
Lei è anche uno scrittore. Che idea di lingua insegue?
Rileggendo Trenità a qualche anno di distanza, mi viene in mente una cosa che dice Saramago nell’Anno della morte di Ricardo Reis: «Ci sono delle persone che hanno questa mania, esultano per le allitterazioni aritmetiche, ritengono che grazie ad esse potranno riordinare il caos del mondo. Non dobbiamo biasimarli, è gente ansiosa». Eppure continuo a credere nel piacere del significante, nella capacità della lingua di sprigionare esperienza ben al di là della dietrologica ricerca delle trame.