Bonaviri: sapori e odori d'una Sicilia della memoria, di Walter Pedullà
Per scrivere la propria autobiografia, anzi l’Autobiografia in do minore, Giuseppe Bonaviri non fa levare in volo quella sua celebre immagine che l’ha sollevato fino alla Divina Foresta e a Silvinia con stupefacenti visioni che passavano dagli occhi al cervello per trasmettergli informazioni fantascientifiche e reali, anzi vere.
Per raccontare la sua giovinezza (da prima dell’anno zero al trentesimo), non ha chiesto dunque l’aiuto della sua prediletta fantasia multicolore ma si è rivolto alla più terrestre e materiale (materialistica) memoria, qui scura come la terra. Ed essa restituisce i sapori e gli odori della sua Sicilia, in un’epoca – anzitutto i fascisti anni Trenta e Quaranta – i cui veri protagonisti sono la miseria, la fame, la fatica, l’analfabetismo e la disperazione. I Bonaviri sono contadini e artigiani che non sollevano lo sguardo al cielo nemmeno per bestemmiare. Non bestemmia neppure Bonaviri, che semmai si lamenta della vita, della vecchiaia, della vista sempre più debole e del caldo sempre più forte, mentre va snocciolando il rosario di esistenze anonime. Alle quali furono negati i grandi traguardi finché non nasce il poeta-narratore e narratore-poeta che, come si dice per metafora, ha fatto tesoro artistico di tanta povertà sociale. Se non pare subito oro, è perché sopra gli si è appiccicata molta terra.
Spolveratela e costaterete che Bonaviri sa fare brillare le parole più umili: anche nel senso usato per le esplosioni delle mine. Non mancano insomma gli acuti a tanta bella musica in do minore.