Giuseppe Bonaviri, Autobiografia in do minore

01-05-2007
La fantasia di Bonaviri, di Walter Pedullà 
 
[…] Si parla tanto del telescopio di Bonaviri, ma cosa ha di così singolare? È come un microscopio che vada a leggere il destino umano negli astri. Questo narratore a propellente gassoso o liquido ci va vicino e si ferma con gli stessi occhi spalancati del lettore per indovina il destino degli uomini. Non basta, c’è un’altra sua strategia per interpretare correttamente i segni del cielo: Bonaviri si legge la mano. Lui anzitutto vuole conoscere la propria sorte. È scritta. La sua sorte è legata a ciò che scrive. Ed è difficile farlo tornare coi piedi per terra, come ora invece con Autobiografia in do minore.
Nella vita reale Bonaviri è un medico ma non si limita a guardare pelle pelle. In parole povere è un cardiologo, cioè uno che sa dire, interpretandone i battiti, cosa ci manda a dire col cuore il nostro corpo. Bonaviri usa la scienza – non esclusa la chimica, siamo pur sempre una combinazione di elementi – per svelare e misurare i sentimenti. Con stupore. È un gioco da bambini per lui trafficare con strumenti scientifici di là da venire e di cui ha solo sentire dire. Per ora non è lontano dal credere che solo i bambini conoscono la verità e intanto è sicuro che noi adulti l’abbiamo perduta vivendo. Che fa allora Bonaviri? Non perde mai di vista l’infanzia, sua fonte prediletta d’ispirazione. Sono degli infanti anche i vecchi, non escluso lei stesso che non è più un bambino. È l’infanzia la sua età perpetua. E naturalmente ci gioca.
Che il fantastico Bonaviri non manchi d’ironia lo dimostra subito, sia il titolo della sua Autobiografia in do minore, sia il sottotitolo: “Racconto di scoordinata sopravvivenza”. Per chi non lo sapesse quell’attributo “scoordinata” discende dalla triade di infiniti presente “scomporre, disordinare, discordare” con cui il Pirandello dell’Umorismo consigliava di far fuori la vecchia Logica e la vecchia Retorica: sono colpevoli di arroccamento su un ormai accecato verismo di maniera. Naturalmente nel frattempo sono invecchiate sia la nuova logica che la nuova retorica di Pirandello e quindi Bonaviri sa di dovere scoordinare la propria sopravvivenza con pensieri e parole diverse. Rispetto a quella di Pirandello, la sua sopravvivenza, toccando ferro, ammicca sorniona, sia pure con lamento, e mente con stile terreo. Bonaviri finge anzi d’essere quasi sotto terra. Lunga vita al grande attore, che di recente ha zappato umilmente nel suo vissuto per ricavare frutti con cui alimentare una critica astenia. Cosa non sa fare questo scrittore in una prosa inaridita come deserto! Magari è solo la scaramanzia di chi si allunga la vita andando ad abitare vicino al cimitero. Pulvis eras et pulvis redibis. Bonaviri da vecchio polverizza la sua adolescenza e ci fa fiorire le rigogliose piante che vivono benissimo senza acqua. E non sia lacrima sfuggita a un vecchio incontinente.
Bonaviri è tra gli scrittori che dichiarano e dimostrano più amore alla vita. Chi sono gli altri ad esempio? Palazzeschi, Bontempelli, Savinio, Campanile, Zavattini, Pizzuto e altri pochi che non fanno la lagna in ogni pagina. L’immaginazione e l’ironia sono dei propellenti formidabili per chi vuole osservare la vita dall’alto in basso.
Se poi Bonaviri si lamenta della vecchiaia, non gli credete. Invecchia solo il suo corpo, la parte deperibile dell’uomo. questo antico sapiente sa cosa dice al riguardo la scienza. Nulla si crea e nulla si distrugge? Invece Bonaviri è sempre qui a creare storie e parole, sperando che siano indistruttibili.
E si diverte con le parole neonate il medico che ha fatto anche il ginecologo contrario all’aborto. Anzi esagerando come spesso gli succede, combatte ogni aborto linguistico, anche se talvolta dà vita a parole focomeliche per innaturale contiguità di quelle frazioni verbali cui ricorre in assenza di termini appropriati a idee e sentimenti che premono dal suo interno per venire alla luce. Alcune sgomitano per uscire, si divincolano e diventano storpie, secondo la strategia di quel Gadda per il quale “deformare significa conoscere”. Attenti dunque quando vedete in Bonaviri parole con la coda o diversamente accresciute rispetto al vocabolario.
Dove porta la sua fantasia? Forse a nulla, forse chi fantastica non ha oggetto, forse basta il piacere di fantasticare del soggetto. Anche tutto ciò è infantile? Forse non tutto, ma non c’è nulla di male nell’esserlo: semmai c’è il bene dell’incoscienza, che è un tesoro cui attingere quando troppo brutto è il reale. Il Novecento ha giurato che l’infanzia è all’origine di tutto, e che l’infanzia è all’origine di tutto, e che tutto in germe essa contiene. Non sarà sempre vero ma Bonaviri lo fa diventare tale, dal suo estremistico punto di vista. Il suo soggetto non disdegna lo zavattiano “Parliamo tanto di me”. Ebbene, Bonaviri parla sempre di sé, mascherandosi. Cercate tra i bambini e lo troverete.
Forse che non è lui Silvinia, la bambina che trasforma in un rito magico la consegna mattutina, aurorale, del pane? Nelle mille metamorfosi di cui si diletta, è anche Silvinia l’autore del romanzo omonimo, la cui parte più bella è la prima, quella più fantastica. Se un gioco non lo diverte più, lui lo spezza, anche se non lo butta via, cambia registro, torna alla realtà, regredisce al realismo della sua giovinezza. Anche se non tutto è bello – c’è del bello in ogni suo libro, forse nessuno è tutto bello – non si butta nulla di quanto Bonaviri ha inventato, ma l’adulto non può mai giocare con la felicità spontanea di un bambino.
Gli piace fare miracoli: ad esempio prende il pane e lo trasforma in un nutrimento che dà più energia della carne. Che ovviamente Bonaviri sente e sublima in sentimento e in pensiero elevato ed eccitante, come constaterà il lettore alla fine dell’Oro in bocca. Hanno qualcosa in comune la sessualità infantile e quella senile? I bambini di Bonaviri allattano attaccati con le labbra alla soffice pagnotta che è grande come la loro testa.
Il narratore lo grida dal risvolto dell’Autobiografia: “La verità è una: debbo fare tutto da me, non ho un gatto o una formica che mi aiutano. E la mia solitudine, che amministro e cerco di superare da solo, mi spunta come ombra sempre davanti”. Siamo forse in una favola di gatti e formiche? Difficile dirlo con Bonaviri, che racconta favole col reale e realtà con le favole. “Ma in questo, continua il narratore di se stesso, c’è un grande mio gioco fra narcisistico e retorico e infantile”. È insomma anche un reo confesso quest’uomo che pare così innocente. Non sono innocenti nemmeno questi tre aggettivi. Non dimentichiamoli, potrebbero condurci al nucleo del vulcanico narratore nato ai piedi dell’Etna.