Giuseppe Cassieri, La strada di ritorno

16-03-2005

Gli assaggi di Bookmark
I primi segnali di chi vuole licenziarsi dal mondo


 capitolo I


Ricordo benissimo i primi segni di un tarlo che sarebbe divenuto implacabile: licenziarmi dal mondo, licenziarmi senza giusta o ingiusta causa, senza un danno irreversibile, e anzi in sostanziale armonia fisica.
Cinque anni addietro, nel mezzo di una sciatta primavera romana, esco dall’università e imbocco via XX settembre, diretto alle Scuderie del Quirinale che ospitano arazzi fiamminghi del diciassettesimo secolo. Di essi mi attrae soprattutto un’opera scoperta in una lussuosa casa a luci rosse del Brabante, già adocchiata in una diapositiva: Il cavaliere morente di F.H. Bergen. Mi trattengo a lungo davanti all’arazzo, soggiogato dall’espressione candida e insieme voluttuosa del cavaliere che versa sangue dall’addome, mentre la spada scintillante affonda nelle viscere. Cosa vuol significare il controriformista Bergen? l’insulsaggine, la grottesca esibizione della carne ferita che si annulla nel trionfo dello spirito? Se questo è il messaggio, fermo restando il valore artistico dell’opera, stento a comprenderlo. Il soggetto dell’arazzo non ha alcuna parentela con un eroe mitologico, con un sanculotto che s’immola alla Rivoluzione, con un martire religioso che pregusta le gioie del sacrificio. Il personaggio di Bergen è un giovane mondano, elegantissimo in ogni dettaglio, che s’immagina volentieri in attesa di una compiacente dama di palazzo anziché della Morte che spunta dalla cornice. Una Morte tuttavia “ludica”: niente scheletri demenziali, niente terrori adombrati in fiamme e nero d’inferno. Al contrario, un grazioso viso ovaleggiante, un corpo morbido in camicia di pizzo e gonna azzurra, e piedi alati su un praticello di trifoglio. Unico simbolo di appartenenza, il piccolo teschio d’avorio appeso al collo; una sorta di gadget acquistato casualmente in un mercatino d’antiquariato. Certo che sì –mi avviene di elucubrare–. Chi non ci starebbe? Chi non firmerebbe una resa condizionata con quest’amabile nemica?
Immerso nella contemplazione del Cavaliere, avevo trascurato i rimanenti arazzi. Il che mi accade di norma quando entro in un museo o partecipo all’inaugurazione di una mostra. Scelgo a fiuto due, tre pezzi su cui concentrarmi e rimando ad altro giro ulteriori godimenti.


Lascio un po’ turbato le Scuderie del Quirinale, chiedo scusa a una signora anziana col borsone della spesa che urto nel sorpasso, e m’infilo sul 219, il bus che si ferma a pochi metri dalla mia palazzina. Cento volte avevo avvertito il disagio di sobbalzare in quei serragli giornalieri e riflettuto sulla virtù primaria del genere umano lungo i millenni: l’adattamento. Adattamento a qualsivoglia capriccio del cielo e della terra. Rifiutavo Aristotele col dogma dell’“animale sociale” e avanzavo l’ipotesi di un essere primordialmente anarchico-individualista costretto (e perciò furente), costretto ad aggregarsi per sussistere. Ma in quel tardo pomeriggio di marzo mi era venuta spontanea una definizione nuova, perentoria, che neppure adesso, in panni ben più umili, saprei rettificare: biomassa insalsicciata! Osservavo quel branco indistinto, quella biomassa di cui ero particella integrante, con infido sentimento di pietà. Sagome standard nelle facce, nell’abito, nei gesti, nel mutismo rugginoso e spesso ostile, mobilitate a smarcarsi da posture contorsionistiche, ad accaparrarsi un appoggio fra due solenni deretani, un varco qualsiasi tra gambe rattrappite, una misera presa d’aria. Le osservavo, le inquadravo col distacco del veggente e tornavo a sussurrare: biomassa insalsicciata. Un sussurro però non abbastanza impercettibile se il tizio che spandeva fiati tossici sulla mia nuca intercetta e chiede: «Dice a me, signore?». Non a lei, rispondo senza molti riguardi. E mi affretto a scendere salvaguardando, per quanto possibile, il seno iperbolico di una puerpera col bambino.
Stranito, avvilito e carico di un’irragionevole scontentezza, apro il cancello e attraverso l’androne augurandomi che Ludmila non ci sia, che sia stata trattenuta a Ostia dalla fiorente comunità ucraina installatasi sul litorale. Non ho voglia di dialogare, di far l’amore, né di ascoltare musica e meno che mai mandare avanti la ricerca sulle mutazioni del senso comune nella società contemporanea.
D’un tratto, abbordando sovrapensiero le cinque rampe, mi accorgo che sono cinquantasei i gradini che portano al quinto piano, cioè al pianerottolo che mi riguarda: cinquantasei, la cifra esatta della mia età anagrafica. Una coincidenza, rilevata soltanto oggi, che per un verso mi sorprende, per un altro m’infastidisce. E m’infastidisce non la coincidenza in sé, ma l’attenzione che le riserbo, nemmeno fossi un numerologo, un suffragetto di meraviglie esoteriche.
M’insulto col “suffragetto” e simultaneamente –anche qui ad arbitrio di memoria– emerge la massiccia figura di Camillo Colantuono, psichiatra di successo conosciuto durante la cena in onore di un visiting professor statunitense. Camillo divorava tutto quel che servivano a tavola, raddoppiava le chitarrine al pesto e le penne alla sorrentina; divorava, raccontava del suo viaggio in Messico, mi fissava con un sorriso ieratico e diceva: «Lo scorso anno ho ascoltato il suo intervento al Golden Club. Ascoltato e avallato. In particolare le sue osservazioni sul quesito: un individuo che si tiene vivo per inerzia truffa di più la vita o la morte?». Non è mia –sento l’obbligo di precisare– è una frase, rielaborata, di Italo Svevo. «Sì –ribatte Camillo– ma lei è andato oltre quel dilemma e ha posto un problema più radicale: morte subìta, appunto per inerzia, o cercata per libera scelta?»
Flagellando col cucchiaino d’argento una squisita torta al mirtillo, lancia il presagio: «Ho la sensazione, Giannutri, che lei non la subirà. È troppo aggressivo per subirla».
Svanisce l’immagine di Camillo Colantuono ma non svanisce l’inquietudine fermentata dall’alternativa che mi viene offerta.
Cerco inutilmente di rassicurarmi accusando un momentaneo cortocircuito della sensibilità e la giornataccia nel segno dell’Ariete. Non c’è Ludmila e non mi manca. Mi stendo sul divano, al buio, con la radiolina accesa. Trasmettono una partita amichevole della nostra nazionale di calcio. La seguo per una ventina di minuti e mi addormento sull’autogol di un difensore cileno.