Giuseppe Cassieri. Un alter-ego in "uscita libera", di Michele Dell'Aquila
Anche i narratori, dunque, come gli ideologi, gli storici, i letterati, i filologi…, sentono il bisogno di uscire dai campi finora batturi della fiction o della indagine critica, per avventurarsi in quelle delle memorie domestiche e dell’autobiografia? Non c’è da stupirsene. Lo fece anche l’inossidabile Benedetto Croce quando, all’età di 49 anni, prendeva a scrivere il noto Contributo alla critica di me stesso: «Sono entrato nell’ultimo anno del decimo lustro, e mi giova, nella pausa ideale indetta nel mio spirito da questa data, guardare indietro al cammino percorso e cercar di spingere lo sguardo su quello che mi conviene percorrere negli anni di operosità che ancora mi resteranno». Non era, Croce, uomo che si proponesse scrivendo di andar dietro a confessioni o ricordi o memorie o al altre «vanità». E tuttavia, sotto la scorza di una apparente imperturbabilità, dalla lettura dei suoi taccuini di lavoro apprendiamo come fosse ossessionato dall’idea della morte e da altre inquietudini.
Giuseppe Cassieri, com’è noto, è scrittore di vena satirica, attento a cogliere e qualche volta ad anticipare le debolezze, le mode e le mutazioni del vivere. Lo ha fatto in una serie di romanzi di successo, con stile elegante, apparentemente leggero, in realtà intriso di articolate componenti di cultura raffinata e specialistica che denunciano nella sua formazione e pratica di vita l’uomo colto, di buoni studi e di vaste letture. I suoi romanzi negli anni (dal Calcinaccio a Offerta speciale, dal Diario di un convertito a Esame di coscienza di un candidato, per ricordar solo qualche titolo) hanno offerto una campionatura di caratteri e situazioni rappresentative delle nevrosi dell’uomo contemporaneo, in cui non sai se ammirare più la capacità quasi virtuosa della lingua e dello stile, l’uso ironico del neologismo, della parola culta o popolare, l’irruzione improvvisa del termine tecnico, l’uso volutamente insistito di codici specialistici, il distanziamento o il coinvolgimento nella rappresentazione della vicenda e delle situazioni, non senza un sottinteso ironico, come a demistificare ogni sforzo intellettuale o verbale; o la comicità irresistibile di certe situazioni in cui si risolve non di rado l’umorismo della scrittura ed il sorriso divertito dell’osservatore del costume.
Ma in tutti Cassieri conferma la sua preferenza per personaggi impegnati in operazioni imposte da mode intellettuali del momento, dalle problematiche letterarie, filosofiche, antropologiche, di sociologia e di morale: lo stesso modo circospetto di raccontare, di analizzare, rappresentare, la stessa inclinazione parodica, grottesca, lo stesso piglio ironico, spesso autoironico, ché dietro ogni finzione s’indovina un filo segreto che si diparte dall’inquietudine dello scrittore stesso, il quale si sdoppia e moltiplica nei personaggi.
Ma nell’ultimo romanzo, La strada del ritorno, c’imbattiamo in un Cassieri diverso. O meglio nel Cassieri che s’indovinava sotterraneo in tante pieghe di carattere dei suoi personaggi: le debolezze, le problematiche inconfessate, le fissazioni, di tanti suoi protagonisti che in qualche modo, più di quanto non si desse a vedere, erano deformazioni di se stesso.
Anche questa volta la scelta autobiografica, impietosa e tesa a scarnificare fino in fondo le incrostazioni rassicuranti della quotidiana accettazione di noi stessi, si scherma di un eteronomo, Nazario Giannutri, e di luoghi geografici diversi da quelli natali dello scrittore pugliese (Rodi Garganico), che peraltro si riconosce per certe radicate scelte di vita. La ricognizione (auto)biografica non risponde ai richiami maliosi della rivisitazione del tempo passato, ma, come subito è chiaro, ad una ricerca delle radici prime e dei virgulti sempre più vigorosi di un malessere crescente e di un disgusto della vita, orientata verso una scelta di libertà, FREE EXIT che metta al riparo dalle angosce delle malattie e di una fine avvilita dalla progressiva decadenza del corpo e dell’anima. Il libro, anzi, si presenta qualche contributo «palesemente disorganico, oscillante tra prima e dopo, tra ieri e oggi», una testimonianza offerta al «Comitato dei diritti civili».
Un intellettuale, docente universitario nella Roma borghese dei nostri anni, avverte ogni giorno più la scontentezza per le forme del vivere, i segni di un tarlo che sarebbe divenuto implacabile: «licenziarmi dal mondo, licenziarmi senza giusta o ingiusta causa, senza un danno irreversibile, e anzi in sostanziale armonia fisica». Si scopre insofferente di tutto. Ogni moda culturale ed esistenziale lo trova disgustato. Sopraggiunge l’ossessione per i fastidi grandi e piccoli del corpo, tutti insopportabili e degradanti: una protesi dentaria che richiede cure ed attenzioni defatiganti, i dolori crescenti del trigemino, i monti oscuri dei sanitari che fanno intravedere tempi di sofferenze indefiniti e crescenti. Diventa intollerante anche con i suoi giovani allievi, uno dei quali, dopo una lunga ed aggrovigliata discussione sul post-moderno e sulla New Age, mostra di averne ben capito lo stato d’animo e bruscamente dichiara: «professò, dica la verità, a lei non va bene più niente di questo mondo».
Pagine e pagine, nello stile dello scrittore, per mettere a fuoco lo stato d’animo: passano innanzi memorie e figure familiari, il fratello, il padre, fotogrammi dell’infanzia, incontri erotici, la crisi matrimoniale, letture, dischi, concerti, dimore, badanti, viaggi, convegni, conferenze, incontri, sullo sfondo di una Roma e di un’Italia frammentata, come la coscienza del personaggio. Inutilmente si cerca qualcosa che tenga, cui aggrapparsi. In una fondazione di volontariato per l’assistenza agli invalidi avviene l’incontro con un paraplegico che gli chiede di aiutarlo a morire.
Per uscire da queste sofferenze grandi e piccole, non servono i cibi, né i viaggi, né l’amore, né l’alcool. Il miraggio di FREE EXIT si fa più imperioso. Esiste una organizzazione che lo promette. Vi si accede a domanda. Ma anche qui, visite, preparazione, diavolerie psichiche e psicanalitiche. Infine il viaggio: un’isoletta sperduta sulle coste atlantiche. Infine… la fine.
Il libro sembra dunque strutturato come una (auto)biografia, oppure anche questa volta, negli ambigui spessori della scrittura e della finzione letteraria, esso si risolve nella storia emblematica, paradossale ed autoironica del professor Nazario Giannutri e nella rappresentazione della sua contemporanea battaglia radicale e civile per un FREE EXIT.