Giuseppe Cassieri, La strada di ritorno

26-03-2005

Eutanasia di un uomo fuori del mondo, di Sergio Pent


La spontanea, lucida leggerezza con cui Giuseppe Cassieri affronta, in ogni suo libro, una tematica profondamente calata nella contemporaneità, ce lo farebbe credere un tardo-adolescente ansioso di bussare al mondo con la sua intelligente curiosità. Sta di fatto che l’attualità sociale, etica, politica e quant’altro messa in atto da Cassieri parte da tempi remoti sul fondo degli Anni Cinquanta, e se l’età anagrafica è un vezzo dietro il quale hanno diritto di nascondersi anche gli ometti, abbiamo comunque di fronte uno scrittore maturo che non vaga nella nostalgia o nella ripetizione di un presente ormai ampiamente retrodatato: Cassieri va avanti di pari passo con l’urgenza dei tempi, anche se questi tempi recenti svelano urgenze assai superficiali, destinate –speriamo– a un fortunoso e non troppo lontano oblio.
Cassieri scrittore sociale, alla fine del listino? Anche, ma soprattutto uomo «di mondo», destinato a percorrere le idiosincrasie –ma anche le rivoluzioni– degli ultimi decenni con un’ironia tagliente e raffinata, con uno stile che sfiora limpidezze assolute, con personaggi simbolici –a tratti estremi– che hanno il pregio di non prevaricare mai sulla narrazione e sulle tematiche del momento con ambizioni egocentriche, parte essenziale di un contesto ma lontani dall’autoelezione protagonistica. È la società contemporanea la vera, unica protagonista dei romanzi sempre snelli, veloci ed essenziali di Giuseppe Cassieri, e questa società ritroviamo –un po’ sfumata da un’indeterminatezza di anni recenti difficili da focalizzare– nell’ultimo, interessante racconto La strada di ritorno, dove la preposizione semplice «di» marca un deciso stacco dall’articolata «del», che avrebbe certo dato adito a ovvietà nostalgico-memoriali o autocompatimenti postumi.
Il tema è quello –a volte dibatturo a volte sepolto con la forza di una fede strumentalizzata a livelli integralistici– della dolce morte, quella parola –eutanasia– che dovrebbe risultare come una mano pietosa tesa verso l’imbarazzo del dolore estremo, e vista invece come un delitto al quale non si può cedere per non cadere in peccato di umana presunzione. Non è questo il luogo di una discussione, peraltro soggettiva se non vincolata da necessità «di partito», ma Cassieri ha fatto suo l’argomento con nobile disinvoltura, ricavandone un inno alla fatica di vivere e –allo stesso tempo– porgendo il fianco a una convinzione etica che riesce a superare con sicurezza i vincoli dell’ipocrisia collettiva.
Nazario Giannutri, l’ultracinquantenne docente universitario al centro della vicenda, esce rinvigorito dalla sua esperienza nell’ambiente severo e generoso di «Free Exit», l’associaizone che dovrebbe accompagnarlo verso una consapevole dipartita. Lui non è affatto un malato terminale, ma crede sia terminato il suo rapporto sempre più incomprensibile con il mondo contemporaneo. Ha trovato il modo, il povero Giannutri deluso dalla vita e da una società in cui non si riconosce, di ripercorrere le tappe salienti della sua storia, dall’infanzia orfana post-bellica al rapporto col fratello Ilario morto tragicamente, al matrimonio con la fredda Elena fino al confronto con un tempo e un’età che non gli appartengono.
«Professo’, dica la verità, a lei non va bene più niente di questo mondo»: le parole di uno studente del Testaccio rimbombano nel libro di Cassieri come l’ultima eco tra tutte quelle evocate con sincera emozione intellettuale dal protagonista. Giannutri non sceglie di morire, ma vorrebbe avere la possibilità di farlo, se e quando. Lo spunto di riflessione è determinante, attuale, prepotente, sullo sfondo di un libro denso e leggero che è –anche– una profonda riflessione umana e intellettuale sul disagio di vivere questi anni torbidi e sfuggenti.