Giuseppe Cassieri, La strada di ritorno

03-07-2005

La denuncia della rimozione della morte nella società contemporanea, di Sabino Caronia


L’ultimo romanzo di Giuseppe Cassieri, La strada di ritorno, si pone come un significativo punto di arrivo della sua narrativa.
Ritroviamo in esso il solito schema: l’intellettuale protagonista posto al centro della vicenda come vinto dalla storia ma insieme vincitore sul piano di una superiore umanità, la rappresentazione satirica interiorizzata tanto da perdere i connotati della satira per assumere quelli metafisici e normativi di un globale senso della vita e di una complessiva idea del reale.
È questa la caratteristica migliore dei romanzi di cassieri, a partire da quella seconda stagione della sua narrativa che si inaugura con La cocuzza (1960), Notturno d’albergo (1960) e Il calcinaccio (1952) e arriva fino al romanzo forse più emblematico in questo senso che è Andare a Liverpool (1968), dove la “sindrome da scirocco” (l’afa è la minaccia di rottura del tempo stabile), che è tema costante del romanziere, diviene sempre più da fattore psicosomatico fattore emblematico.
In La strada di ritorno l’intellettuale protagonista della vicenda è posto ai bordi del sacro. Alla domanda Tu credi?” risponde “sono un laico, un laico non di carriere, invidiosissimo di chi crede”.
Contro la sindrome da scirocco, contro le sirene della morte, l’intellettuale protagonista de La strada di ritorno oppone la sua scelta richiamando in proposito le parole della medaglietta che la compagna Nadia ha ricevuto dalle mani di madre Teresa di Calcutta “La vita è un gioco, giocalo, la vita è un’avventura, rischiala”.
Ecco che l’ingresso in un luogo sacro gli ispira le seguenti riflessioni: “Che sventura, parola di laico, se non ci fossero, se sparissero per maleficio templi, eremi, monasteri e chiese di ogni fede nel collasso planetario. Non un minuto prima , -mi avveniva di implorare- Non un minuto prima, Signore del Tutto e del Nulla! Che la fine dei tempi, quando sarà, sia almeno contestuale”.
Ritorna nel romanzo l’interesse di Cassieri per il millenarismo (risalente al corso universitario di Adolfo Omodeo sull’Apocalisse da lui frequentato a Napoli quando era studente) che richiama ancora una vota alla costante cassieriana di un mondo prossimo a conflagrare ed è anche la consapevolezza dell’effimero da cui nasce ogni autentica esigenza di finalismo.
Ritorna così la polemica contro certi fenomeni odierni di pseudo-religiosità, contro i Testimoni di Geova che promettono “il paradiso tutto e subito” o come quella minestra maritata che è, a ben vedere, la New Age.
Ritorna la critica nei confronti della scienza che con le sue promesse (l’eugenetica, il prolungamento artificiale della vita, l’accanimento terapeutico) è diventata più spiritualista della religione.
Particolarmente violenta è la denuncia della rimozione della morte nella società contemporanea, lo sdegno e sgomento per l’ideologia del colletto bianco diffusa nel paese Italia: facciano gli stranieri bisognosi ciò che gli italiani non vogliono più fare, quella “spudorata miscela di decoro microborghese e giustificazione lassista a beneficio di straccioni apolidi che, successivamente, diventeranno caporali e sergenti d’azienda e, a loro volta ingaggeranno paria e disperati perché facciano ciò che essi, gli ex, rifiutano persino di memorizzare, contro cui viene riproposto il benedetto imperativo degli anni Settanta, sporcarsi le mani, “quell’ultima illusione di intervenire in un mondo magmatico, sgangherato ma ancora suscettibile, circoscrivibile”.
Contro la rimozione della morte è rivendicata una scelta diversa, più responsabile, che comporta l’equiparazione tra morte e nascita, nel senso di avere lo stesso riguardo per chi muore che per chi nasce, e con essa la consapevolezza, che deve essere in tutti, che la difesa della vita è sempre una richiesta positiva, un invito ispirato dalla speranza.
Significative per il senso della vicenda sono le parole conclusive del romanzo: “Mio fratello Ilario, che spesso rimuginava sulle enfatiche aspettative scientifiche, aveva detto un giorno, passeggiando nel parco dell’Aniene: ‘Nazà, altro che storie, è la speranza ciò che più conta nel transito. La speranza è più forte di ogni concretezza, viene prima della fede, prima dell’amore e prima della carità’. Lui però l’aveva tragicamente perduta, io, fortunosamente, l’ho ritrovata”.