La “buona morte” vivamente consigliata, intervista di Linnio Accorroni
“Mi scoprivo irascibile, pretestuoso ed intollerante. Intollerante dell’ordine costituito. Sociale e politico su cui bascula l’esistente, e per la prima volta mettevo in forse il “senso comune”, base appassionata della mia ricerca”. La quête intrapresa in tarda età da Nazario Giannutri, docente universitario ed io narrante di questo romanzo, pamphlettistico ed umorale, ha come oggetto di indagine l’apocalisse prossima ventura, sull’orlo della quale allegramente balla la nostra società. Da questa inchiesta, che ha tinte sia autoanalitiche che sociologiche, derivano al protagonista una mole incommensurabile di livori ed odi, un coacervo di idiosincrasie e furori verso una contemporaneità che vede stoltamente sopraffatta da mode e must sempre più volgari e degradanti, ai quali pare impossibile opporre una qualsivoglia forma di resistenza o di rifiuto. Niente sembra in grado di arrestare la fiumana dell’insensatezza e della sguaiataggine: “Il treno blindato dello Sviluppo sottoposto all’atroce dilemma: fermarsi e scoppiare subito sui binari, o scoppiare al termine della corsa”. Recuperare, poi, in chiave memoriale, episodi ed incontri determinanti della propria vita, pur escludendo ogni tentazione patetico-nostalgica, serve ad aumentare l’estraneità ed il disprezzo di Nazario Giannutri verso un’epoca ed un tempo, incomprensibili e crudeli. Da qui nasce il desiderio di “una cripta, una gravina carsica, uno scalo-merci, purché altrove” che trova una materializzazione attraverso l’associazione Free Exit, il cui motto “zelo ed amore” indica non solo un impegno costante verso la “piacevolezza” del soggiorno terreno –quella che con un termine fin troppo abusato e che, probabilmente, non piacerebbe al professor Giannutri, si addita come “la qualità della vita”,– ma anche una altrettanto determinata e precisa attenzione verso quello che può essere liricamente indicato come “il dolce afflato della morte”. Ma il finale, che è un po’ a sorpresa, come del resto il titolo, ci induce a terminare qui questa introduzione. Il titolo infatti: d’acchitto, La strada di ritorno parrebbe opera d’ambientazione elegiaca, intrisa di malinconie nostalgiche e di tentazioni regressive verso antiche, consunte felicità. Leggendolo invece, ci si rende conto come esso riguardi una vicenda assai particolare, per cui il titolo assume una connotazione completamente diversa, estranea ad ogni titillamento della memoria, senza per questo perdere in aderenza e pertinenza al plot. Stilos ne ha parlato con Cassieri.
Come è nato un titolo del genere? Aveva messo in conto questa specie di effetto sorpresa che può confondere il lettore?
Il titolo è apparso purtroppo scorretto in alcune testate – ovvero La strada del ritorno, anziché “di” ritorno – e ciò ha indotto qualche recensore, per esempio, Sergio Pent su “La Stampa”, a sottili distinguo di senso, tutt’altro che retorici. La differenza è infatti considerevole. La strada del ritorno avrebbe probabilmente evocato approdi elegiaci, l’idea ulissica di un nostos, quei “titillamenti della memoria” supposti nella sua domanda. Ma il titolo corretto è lì, pronto a sgombrare l’equivoco e a indicare una più severa percezione della metafora.
Il libro affronta, senza ipocrisie od infingimenti, uno dei tabù centrali della nostra società, rimosso e censurato, in varie forme, eppure attualissimo, ovverosia il tema della “buona morte”. È davvero una buona cartina tornasole atta a testimoniare lo stato presente della nostra società?
La “buona morte” onorata (specie nelle aree meridionali) da apposite confraternite, e il sinonimo “eutanasia” nel linguaggio universale, subiscono un curioso destino: esprimono lo stesso concetto, puntano al medesimo traguardo, sebbene con modalità diverse, e tuttavia eccole tirate di qua e di là da fideisti e ultralaici, con periodiche chiamate alle armi. Invano le libere coscienze battono e ribattono perché si accetti l’epilogo della vita come si accetta serenamente la creatura che viene al mondo; invano si auspicano uguali diritti nella parabola della nostra esistenza. Permane il tabù storicamente irrobustito dalla Controriforma. L’intento del libro è anche quello di parlarne “senza toccarsi”: a lume di ragione. Sarà mai possibile?
L’io narrante, Nazario Giannutri, è un rancoroso malpensante, squassato da ire e recriminazioni che cura ed alleva gelosamente, tanto che spesso il libro si trasforma in un catalogo degli orrori ed errori della modernità, narrati attraverso episodi e tranches de vie che fotografano efficacemente la follia del nostro tempo. Si può dire che, anche in questo caso, “indignatio facit versus”?
Indignazione e progressivo straniamento sono effetti collaterali dell’accoppiata depressione-oppressione che investe il professor Giannutri e spezza un soddisfacente equilibrio fisico, sentimentale, intellettuale. Al picco massimo della crisi, Giannutri progetta di morire, ma esige una morte dolce, “assistita”, e la cerca in una struttura extraterritoriale dove non è vergognoso ottenerla. Il tormentato iter non si consuma però nelle angustie private; al contrario, si traduce in una magnifica occasione per sbriciolare la glassa dolciastra diffusa nella società contemporanea e far riemergere drammatiche prospettive del pianeta, dolosamente sottaciute o politicamente depotenziate. Una per tutte: l’insostenibile crescita demografica che tanto sconvolge la Santa Sede.
Eppure, anche nell’epoca dominata dal Prod-Cons (come Giannutri sintetizza l’endiade Produzione-Consuno), c’è posto ancora per un po’ di bellezza e di dignità che può essere additata come modello salvifico. Ad esempio il fratello del protagonista, morto in seguito ad uno “strano” suicidio, la cantante lirica Nadia Cruz…
Certo che un posto c’è, una via di fuga. Sia Ilario, sfortunato fratello del protagonista, sia Nadia Cruz, la donna salvifica, convergono non a caso sul tema della speranza.
Una delle qualità del libro consiste anche nell’adozione di uno stile frastagliato e quasi in presa diretta, come se volutamente fosse stato preservato da un minuzioso labor limae che, magari, ne avrebbe compromesso il tono aspro e satirico, la febbrilità caustica ed aggressiva. Può essere che questa che pare una sorta di incompiutezza sia frutto, invece, di una scelta meditata e consapevole?
Sì, l’adozione di uno stile frastagliato è ben consapevole. Fa parte del pensiero libertario che si sottrae alle ordinate sequenze del plot. Anzi, il plot qui è obbligato a una salutare magrezza.
La cognizione del dolore del mondo procede in parallelo, quasi un percorso di reciproca scoperta, alla cognizione del (proprio) dolore fisico da parte dell’io narrante Nazario Giannutri, come se l’uno svelasse progressivamente l’altro.
Mi sembra una interpretazione perfetta. Nella domanda c’è già insita la risposta.
Nel libro lei critica la Yourcenar della postfazione di Memorie di Adriano, elogia Svevo, rimprovera l’ossessione senile-sessuale dell’ultimo Roth: è un caso che anche questi autori, come del resto fa lei in La strada di ritorno siano autori ossessivamente interessati dal legame inscindibile fra eros e thanatos?
A parte Svevo che pone una questione centrale sul “truffare” la vita o la morte, e dunque in linea con il mio argomento; a parte il legittimo richiamo di eros e thanatos, l’attenzione ironica dedicata alla Yourcenar e all’ultimo Roth –autori amatissimi– va a nutrire le intolleranze, i rifiuti, le distorsioni crescenti del personaggio allo sbando. Così avviene per gli studenti, le tesi di laurea, la colf, lo stadio olimpico, il chiasso dei bambini, gli agglomerati urbani (“biomassa insalsicciata”)… L’umor nero, quando entra in gioco, non concede sconti.
Il suo libro suona anche come una clamorosa, efficacissima smentita a quel pregiudizievole e stereotipato luogo comune di certa critica che vuole la narrativa italiana paralizzata da una specie di peccato originale (l’ipertrofica, ostentata esibizione del proprio ego), quella che, con un termine sciocco e dispregiativo, viene liquidata come “letteratura ombelicale”. Con lei ci si muove in tutt’altra direzione.
Francamente ignoro il fascino dell’ombelico. Preferisco altri doni di Venere. Di ombelichi ne vedo fin troppi sul pancino delle ragazze. Non sempre belli, hanno comunque il merito di essere autentici. Perché aggiungere surrogati letterari?