L'insopportabile vita, di Massimo Onofri
La strada di ritorno, l’ultimo romanzo di Giuseppe Cassieri, si apre con una lettera dell’io narrante, Nazario Giannutri, a Gerard Roussel, Promotore del Comitato diritti civili in difesa di Free Exit: “Sostengo con forza accresciuta l’iniziativa di pubblicare un dossier plurinazionale sul tema che ci sta a cuore e presentarlo a Strasburgo, nella speranza che si possa scongiurare un processo infamante a carico di persone di alta statura morale, dedite alla “lotta per la vita” quanto più, paradossalmente, esercitate a garantire il dolce afflato della morte”. La Free Exit, con tanto di sito dettagliato, è un’organizzazione assistenziale che, con l’ausilio di medici e psichiatri all’uopo preparati, s’incarica di seguire, non solo nella fase terminale, tutti coloro che hanno deciso di togliersi la vita. Con il risultato di riguadagnarne la grande maggioranza alla vita: come capita a Nazario (di qui il significato del titolo), che si dispone a darne testimonianza con un testo, coincidente, appunto, col libro che ci troviamo a leggere.
Non siamo di fronte al Cassieri cui siamo più abituati: quello satirico e comunitario, implacabile nel restituirci certi meccanismi di infatuazione o delirio collettivi. Lo scrittore di queste pagine si confronta invece, e senza indugi, con uno dei più misteriosi assilli della coscienza di fronte a se stessa, quando la vita non pare più sopportabile: la tentazione del suicidio, qui declinato anche per il verso d’uno dei temi più scottanti dell’etica contemporanea, quello dell’eutanasia o della “buona morte”. E tutto ciò, sullo sfondo d’un romanzo affollato di personaggi –e dentro l’inevitabile spirale di un’autoanalisi, tanto necessaria quanto inutile, che s’interroga sulle radici più o meno antiche d’un improvvisamente sopraggiunto e sempre più incalzante male di vivere– dove giganteggia il rapporto con un fratello più grande, brillante e altruista, il quale, a differenza di Nazario che l’ha “fortunatamente” ritrovata, la speranza “l’aveva tragicamente perduta”, schiantandosi sugli scogli delle acque messapiche.
La questione è di quelle sempre soffocate dalla reticenza: non si sa se più per scandalo sociale o angoscia individuale. Tanto più interessante, allora, andare a vedere come se la cava uno scrittore che s’è formato contraendo i virus d’una cultura letteratissima, tra Ronda ed Ermetismo: i nomi, qui evocati, di Quasimodo e Libero de Libero valgano come autodenuncia. Cito a caso: “Capelli color rame, statura innalzata da stivaletti omertosi, esuberanza di proteine”. Dove conta soprattutto la sopraelevazione metaforica dell’aggettivo “omertosi”: con suggestivi approdi conoscitivi della scrittura. Senza trascurare la forza biologica –in funzione del ritratto tra etico ed erotico del personaggio di Giulì– del sorprendente complemento di specificazione: “di proteine”. Ma sarà pure da registrare la similitudine: “come un’ape che torna a suggere la stessa acacia”. A dire di un processo psichico che ha a che fare con il “display della mente”. Laddove la lingua pigia spesso sul pedale dell’antologia, sempre ben registrato. Contravveleni della letteratura. Ieri, in vista di un’ironia spinta fin quasi al sarcasmo. Oggi, perché un romanzo d’aspra moralità sia messo al riparo da ogni retorica dei sentimenti.