Giuseppe Cassieri, La strada di ritorno

08-06-2005

Cassieri e il tabù dell’eutanasia


“Ricordo benissimo i primi segni di un tarlo che sarebbe divenuto implacabile: licenziarmi dal mondo, licenziarmi senza giusta o ingiusta causa, senza un danno irreversibile, e anzi in sostanziale armonia fisica”. È l’incipit dell’ultimo romanzo di Giuseppe Cassieri, La strada di ritorno pubblicato dalla casa editrice Manni. Nella quartina dei finalisti al premio letterario “Città di Bari 2005”, è il libro che aprirà l’inedito ciclo d’incontri “Scritture al Fortino Sant’Antonio”. Oggi pomeriggio, alle 18:30 nella saletta del Fortino (con accesso dal lungomare, ingresso libero), della Strada di ritorno insieme a Cassieri discuteranno Lia Mintrone, giornalista di “Telebari”, e Corrado Petrocelli, preside della Facoltà di Lettere dell’Ateneo barese (che, per questa iniziativa, ha assicurato la sua collaborazione all’assessorato alle Culture). A chiudere la conversazione una degustazione enogastronomica proposta dal Movimento turismo del vino.
Quanto al romanzo di Cassieri, narratore e saggista di lungo corso e peraltro di origini pugliesi (classe 1926, è nato a Rodi Garganico), affronta un insuperato tabù, oggetto di discussione soprattutto in questa nostra contemporaneità: l’eutanasia o dolce morte che dir si voglia. “Ho trovato La strada di ritorno –dice Cosimo Petrocelli– innanzitutto coinvolgente per uno stile narrativo piuttosto particolare. Cassieri esprime una cifra stilistica che possiede tratti di lucida durezza, dove il coinvolgimento emotivo assieme all’ironia avvingono ancorando il lettore al tema antico e grave del male di vivere. Rispetto poi alla riflessione sulla complessità dell’esistenza la scelta di una narrazione autobiografica è vincente e si svolge senza cedimenti ad una semplice nostalgia della memoria”.
Dunque un’osservazione di natura fisiologica. “È stato sottolineato –spiega– l’uso della preposizione ‘di’ nel titolo del romanzo: non dunque La strada del ritorno , ma un di che ha un carattere di indeterminatezza e di apertura verso l’alterità. Infine la testimonianza, da alcuni critici definita civile, che è per certi versi di lotta e di resistenza del protagonista che si trova sempre in una condizione scomoda, da “eretico” come gli viene preconizzato quand’è ancora un ragazzino. Ma nel mantenere ferme le prerogative di questa eresia ci sono tutte le ragioni che, proprio nel momento della dolce morte come scelta volontaria, rendono invece fortissimo il rapporto con l’esistenza.”


17/06/2005 La Gazzetta del Sud
Ricerca delle memorie in un intreccio gotico, di
Giuseppe Amoroso 


Qual è il messaggio del Cavaliere morente di Bergen, esposto alle Scuderie del Quirinale? Questo interrogativo si pone Nazario Giannutri, professore d'università, io narrante di La strada di ritorno di Giuseppe Cassieri, immergendosi nel caos della città, in un tardo pomeriggio di marzo. Con il «distacco del veggente» e un'infinita pietà guarda il branco indistinto ammassato nell'autobus e salendo le scale di casa si accorge che sono cinquantasei i gradini che portano al suo pianerottolo, tanti quanti gli anni della sua età. E ha avvio la ricerca delle memorie, di un «retroterra», di un epicentro che emana fotogrammi dell'adolescenza e della giovinezza a Valcomino: l'amore per l'arte, le letture crociane, i volti femminili della Storia, la «selvatica» inizializzazione sessuale, in un rudere visitato da un'opaca luce lunare. Con il limpido soccorso del sorriso Cassieri fa scivolare le immagini secondo un giustificato tempo di apparizione, una durata psicologica, ma anche operando una scelta necessaria, dettata da un «patto con la vita». Il ritmo non determina sobbalzi né pause, sostiene una carovana di episodi, anche «didascalici», individuati con una naturalezza che li rende vivi e scrostati dalla patina gialla della lontananza. Il presente e il passato non usano registri espressivi diversi: anche il saggio, la citazione, la manovra culturale si fondono in un racconto di docile movimento, in un'elegante ottica di rappresentazione che riesce a placare i dolori, «intolleranze e improvvisi rigetti». Il matrimonio di breve durata, la morte del fratello, i riti della vita nazionale e l'urgenza di uscire da «un fondaco privato» si alternano con una miriade di piccoli volti, le ricche vedute del paesaggio romano e brillanti divagazioni filologiche. Nel frattempo incrudeliscono le «intolleranze», mentre ostile, freddo si incunea il motivo della morte, disseminato in una antologia di incursioni stimolanti nelle «terre della comare secca» da cui scaturisce una sorta di intreccio gotico originale: con impunture espressionistiche, fra interrogativi simbolici e mascherata festività di commedia. La scrittura, ricorrendo alla sua più operosa officina, compie un viaggio nella realtà drammatica proprio grazie a una «frenesia onirica». E si spalanca la strada a una «transitoria eversione della fantasia». L'io, «pericolosamente divaricato», tra freddezza e cupo richiamo dell'abisso, cerca altre esperienze per superare la solitudine: ma la scelta di prestare opera di volontariato in una comunità si trasforma in un boomerang.


23/06/2005 La Repubblica-Bari
Quei 56 scalini di ritorno a casa, di Ignazio Minerva


Il tema del suicidio a lungo implicito, sotterraneo, nei libri di Giuseppe Cassieri è venuto fuori all’improvviso. Un po’ come capita a Nazario Giannutri, il protagonista del nuovo libro La strada di ritorno, tra i finalisti del Premio Città di Bari. Un giorno Giannutri, andando a casa, conta gli scalini che lo separano dall’appartamento. Sono 56, quanti i suoi anni. Colto da una strana inquietudine, pensa al licenziamento dalla vita “senza giusta o ingiusta causa”. Tutti gli esseri che popolano il suo universo appaiono inquietanti, gli sembra di far parte di un’unica cosmica “biomassa insalsicciata”. I primi segnali, confessa Giannutri, li ha avvertiti guardando Il cavaliere morente di Bergen, “un giovane mondano, elegantissimo in ogni dettaglio, che s’immagina volentieri in attesa di una compiacente dama di palazzo anziché della Morte che spunta dalla cornice”. La fine, pensa, potrebbe non essere lugubre, ma “ludica”, senza “scheletri demenziali” o “terrori adombrati in fiamme e nero d’inferno”. Del resto, citando Svevo, un individuo che si tiene vivo per inerzia, truffa di più la vita o la morte? Giannutri vuole sfuggire al disagio e sembra trovare la soluzione in una misteriosa organizzazione, Free Exit, e in un programma di ristrutturazione della personalità che rimanda all’Arancia meccanica di Burgess: la via d’uscita potrebbe essere la stipula di un patto ragionato con la vita. Per trattare il senso dell’esistere e uno dei più resistenti tabù, Cassieri ha scelto la levità, l’ironia, con una vicenda che attraversa il territorio narrativo di Pirandello e Calvino. Per esempio, il dramma della prova-specchio è tradotto con una riflessione sulla scala cromatica dell’invecchiamento. Si passa dal grigio verde dei cinquanta, pensa Nazario, al grigio tenue, per scivolare nel fumo di Londra e poi terminare con il nero di seppia. A questo punto un’esclamazione dal sapore liberatorio che volge in nonsense il “morte, tu morrai” di John Donne: “Ma la seppia non mi avrà, la seppia non mi tingerà”.


24/06/2005 Il Mattino
Con Cassieri alla scoperta dell'ultimo tabù moderno: l'eutanasia, di Felice Piemontese


Se si facesse un catalogo ragionato dei temi affrontati da Giuseppe Cassieri in alcune decine di romanzi e nei saggi dedicati a quello che lui stesso ha definito kultur-market, si vedrebbe che sono pochi i modi del vivere contemporaneo che sono sfuggiti alla penna acuminata, ma mai velenosa, dello scrittore pugliese. Nessuna sorpresa, dunque, se col suo nuovo libro –intitolato La strada di ritorno Cassieri ha voluto affrontare uno degli argomenti più scabrosi che esistono: quello dell’eutanasia. Protagonista del romanzo è un docente universitario che un certo giorno della sua vita si accorge di essere, senza motivo apparente, “stranito, avvilito e carico di un’irragionevole scontentezza”. In casi del genere, imboccare una china discendente è la cosa più facile. E per Nazario Giannutri, “storico della mentalità”, assai poco efficaci sono i tanti richiami volontaristici quanto il tentativo di ritrovare nel proprio passato i motivi di una così insidiosa frattura. Che, pur non essendo minimamente esibita, diventa tuttavia percettibile, se uno studente, durante una lezione, si sente uscire dall’abituale apatia per osservare: “Professò, dica la verità, a lei non va bene più niente di questo mondo”.
Il passo successivo è quello di affidarsi a un’organizzazione, “Free Exit”, che esperiti tutti i possibili tentativi di recupero, si occupa di organizzare, senza fini di lucro e nel modo più indolore possibile, il traghettamento nell’aldilà. Libero ognuno di pensarla come vuole su un tema così delicato. Qui conta piuttosto sottolineare in coraggio con cui Cassieri lo affronta. Con leggerezza tutt’altro che incosciente, e non rinunciando, di tanto in tanto, a irridere tic e rituali della quotidianità intellettuale. Con, in più, la malinconica consapevolezza che ansie e frustrazioni del professore non sono solo sue, ma appartengono un po’ a tutti, in un mondo in cui smarrire se stessi è la cosa più facile che possa capitare.


03/07/2005 L'Osservatore romano
La denuncia della rimozione della morte nella società contemporanea, di Sabino Caronia


L’ultimo romanzo di Giuseppe Cassieri, La strada di ritorno, si pone come un significativo punto di arrivo della sua narrativa.
Ritroviamo in esso il solito schema: l’intellettuale protagonista posto al centro della vicenda come vinto dalla storia ma insieme vincitore sul piano di una superiore umanità, la rappresentazione satirica interiorizzata tanto da perdere i connotati della satira per assumere quelli metafisici e normativi di un globale senso della vita e di una complessiva idea del reale.
È questa la caratteristica migliore dei romanzi di cassieri, a partire da quella seconda stagione della sua narrativa che si inaugura con La cocuzza (1960), Notturno d’albergo (1960) e Il calcinaccio (1952) e arriva fino al romanzo forse più emblematico in questo senso che è Andare a Liverpool (1968), dove la “sindrome da scirocco” (l’afa è la minaccia di rottura del tempo stabile), che è tema costante del romanziere, diviene sempre più da fattore psicosomatico fattore emblematico.
In La strada di ritorno l’intellettuale protagonista della vicenda è posto ai bordi del sacro. Alla domanda Tu credi?” risponde “sono un laico, un laico non di carriere, invidiosissimo di chi crede”.
Contro la sindrome da scirocco, contro le sirene della morte, l’intellettuale protagonista de La strada di ritorno oppone la sua scelta richiamando in proposito le parole della medaglietta che la compagna Nadia ha ricevuto dalle mani di madre Teresa di Calcutta “La vita è un gioco, giocalo, la vita è un’avventura, rischiala”.
Ecco che l’ingresso in un luogo sacro gli ispira le seguenti riflessioni: “Che sventura, parola di laico, se non ci fossero, se sparissero per maleficio templi, eremi, monasteri e chiese di ogni fede nel collasso planetario. Non un minuto prima , -mi avveniva di implorare- Non un minuto prima, Signore del Tutto e del Nulla! Che la fine dei tempi, quando sarà, sia almeno contestuale”.
Ritorna nel romanzo l’interesse di Cassieri per il millenarismo (risalente al corso universitario di Adolfo Omodeo sull’Apocalisse da lui frequentato a Napoli quando era studente) che richiama ancora una vota alla costante cassieriana di un mondo prossimo a conflagrare ed è anche la consapevolezza dell’effimero da cui nasce ogni autentica esigenza di finalismo.
Ritorna così la polemica contro certi fenomeni odierni di pseudo-religiosità, contro i Testimoni di Geova che promettono “il paradiso tutto e subito” o come quella minestra maritata che è, a ben vedere, la New Age.
Ritorna la critica nei confronti della scienza che con le sue promesse (l’eugenetica, il prolungamento artificiale della vita, l’accanimento terapeutico) è diventata più spiritualista della religione.
Particolarmente violenta è la denuncia della rimozione della morte nella società contemporanea, lo sdegno e sgomento per l’ideologia del colletto bianco diffusa nel paese Italia: facciano gli stranieri bisognosi ciò che gli italiani non vogliono più fare, quella “spudorata miscela di decoro microborghese e giustificazione lassista a beneficio di straccioni apolidi che, successivamente, diventeranno caporali e sergenti d’azienda e, a loro volta ingaggeranno paria e disperati perché facciano ciò che essi, gli ex, rifiutano persino di memorizzare, contro cui viene riproposto il benedetto imperativo degli anni Settanta, sporcarsi le mani, “quell’ultima illusione di intervenire in un mondo magmatico, sgangherato ma ancora suscettibile, circoscrivibile”.
Contro la rimozione della morte è rivendicata una scelta diversa, più responsabile, che comporta l’equiparazione tra morte e nascita, nel senso di avere lo stesso riguardo per chi muore che per chi nasce, e con essa la consapevolezza, che deve essere in tutti, che la difesa della vita è sempre una richiesta positiva, un invito ispirato dalla speranza.
Significative per il senso della vicenda sono le parole conclusive del romanzo: “Mio fratello Ilario, che spesso rimuginava sulle enfatiche aspettative scientifiche, aveva detto un giorno, passeggiando nel parco dell’Aniene: ‘Nazà, altro che storie, è la speranza ciò che più conta nel transito. La speranza è più forte di ogni concretezza, viene prima della fede, prima dell’amore e prima della carità’. Lui però l’aveva tragicamente perduta, io, fortunosamente, l’ho ritrovata”.



30/08/2005 Stilos
La “buona morte” vivamente consigliata, intervista di Linnio Accorroni


“Mi scoprivo irascibile, pretestuoso ed intollerante. Intollerante dell’ordine costituito. Sociale e politico su cui bascula l’esistente, e per la prima volta mettevo in forse il “senso comune”, base appassionata della mia ricerca”. La quête intrapresa in tarda età da Nazario Giannutri, docente universitario ed io narrante di questo romanzo, pamphlettistico ed umorale, ha come oggetto di indagine l’apocalisse prossima ventura, sull’orlo della quale allegramente balla la nostra società. Da questa inchiesta, che ha tinte sia autoanalitiche che sociologiche, derivano al protagonista una mole incommensurabile di livori ed odi, un coacervo di idiosincrasie e furori verso una contemporaneità che vede stoltamente sopraffatta da mode e must sempre più volgari e degradanti, ai quali pare impossibile opporre una qualsivoglia forma di resistenza o di rifiuto. Niente sembra in grado di arrestare la fiumana dell’insensatezza e della sguaiataggine: “Il treno blindato dello Sviluppo sottoposto all’atroce dilemma: fermarsi e scoppiare subito sui binari, o scoppiare al termine della corsa”. Recuperare, poi, in chiave memoriale, episodi ed incontri determinanti della propria vita, pur escludendo ogni tentazione patetico-nostalgica, serve ad aumentare l’estraneità ed il disprezzo di Nazario Giannutri verso un’epoca ed un tempo, incomprensibili e crudeli. Da qui nasce il desiderio di “una cripta, una gravina carsica, uno scalo-merci, purché altrove” che trova una materializzazione attraverso l’associazione Free Exit, il cui motto “zelo ed amore” indica non solo un impegno costante verso la “piacevolezza” del soggiorno terreno –quella che con un termine fin troppo abusato e che, probabilmente, non piacerebbe al professor Giannutri, si addita come “la qualità della vita”,– ma anche una altrettanto determinata e precisa attenzione verso quello che può essere liricamente indicato come “il dolce afflato della morte”. Ma il finale, che è un po’ a sorpresa, come del resto il titolo, ci induce a terminare qui questa introduzione. Il titolo infatti: d’acchitto, La strada di ritorno parrebbe opera d’ambientazione elegiaca, intrisa di malinconie nostalgiche e di tentazioni regressive verso antiche, consunte felicità. Leggendolo invece, ci si rende conto come esso riguardi una vicenda assai particolare, per cui il titolo assume una connotazione completamente diversa, estranea ad ogni titillamento della memoria, senza per questo perdere in aderenza e pertinenza al plot. Stilos ne ha parlato con Cassieri.

Come è nato un titolo del genere? Aveva messo in conto questa specie di effetto sorpresa che può confondere il lettore?
Il titolo è apparso purtroppo scorretto in alcune testate – ovvero La strada del ritorno, anziché “di” ritorno – e ciò ha indotto qualche recensore, per esempio, Sergio Pent su “La Stampa”, a sottili distinguo di senso, tutt’altro che retorici. La differenza è infatti considerevole. La strada del ritorno avrebbe probabilmente evocato approdi elegiaci, l’idea ulissica di un nostos, quei “titillamenti della memoria” supposti nella sua domanda. Ma il titolo corretto è lì, pronto a sgombrare l’equivoco e a indicare una più severa percezione della metafora.

Il libro affronta, senza ipocrisie od infingimenti, uno dei tabù centrali della nostra società, rimosso e censurato, in varie forme, eppure attualissimo, ovverosia il tema della “buona morte”. È davvero una buona cartina tornasole atta a testimoniare lo stato presente della nostra società?
La “buona morte” onorata (specie nelle aree meridionali) da apposite confraternite, e il sinonimo “eutanasia” nel linguaggio universale, subiscono un curioso destino: esprimono lo stesso concetto, puntano al medesimo traguardo, sebbene con modalità diverse, e tuttavia eccole tirate di qua e di là da fideisti e ultralaici, con periodiche chiamate alle armi. Invano le libere coscienze battono e ribattono perché si accetti l’epilogo della vita come si accetta serenamente la creatura che viene al mondo; invano si auspicano uguali diritti nella parabola della nostra esistenza. Permane il tabù storicamente irrobustito dalla Controriforma. L’intento del libro è anche quello di parlarne “senza toccarsi”: a lume di ragione. Sarà mai possibile?

L’io narrante, Nazario Giannutri, è un rancoroso malpensante, squassato da ire e recriminazioni che cura ed alleva gelosamente, tanto che spesso il libro si trasforma in un catalogo degli orrori ed errori della modernità, narrati attraverso episodi e tranches de vie che fotografano efficacemente la follia del nostro tempo. Si può dire che, anche in questo caso, “indignatio facit versus”?
Indignazione e progressivo straniamento sono effetti collaterali dell’accoppiata depressione-oppressione che investe il professor Giannutri e spezza un soddisfacente equilibrio fisico, sentimentale, intellettuale. Al picco massimo della crisi, Giannutri progetta di morire, ma esige una morte dolce, “assistita”, e la cerca in una struttura extraterritoriale dove non è vergognoso ottenerla. Il tormentato iter non si consuma però nelle angustie private; al contrario, si traduce in una magnifica occasione per sbriciolare la glassa dolciastra diffusa nella società contemporanea e far riemergere drammatiche prospettive del pianeta, dolosamente sottaciute o politicamente depotenziate. Una per tutte: l’insostenibile crescita demografica che tanto sconvolge la Santa Sede.

Eppure, anche nell’epoca dominata dal Prod-Cons (come Giannutri sintetizza l’endiade Produzione-Consuno), c’è posto ancora per un po’ di bellezza e di dignità che può essere additata come modello salvifico. Ad esempio il fratello del protagonista, morto in seguito ad uno “strano” suicidio, la cantante lirica Nadia Cruz…
Certo che un posto c’è, una via di fuga. Sia Ilario, sfortunato fratello del protagonista, sia Nadia Cruz, la donna salvifica, convergono non a caso sul tema della speranza.

Una delle qualità del libro consiste anche nell’adozione di uno stile frastagliato e quasi in presa diretta, come se volutamente fosse stato preservato da un minuzioso labor limae che, magari, ne avrebbe compromesso il tono aspro e satirico, la febbrilità caustica ed aggressiva. Può essere che questa che pare una sorta di incompiutezza sia frutto, invece, di una scelta meditata e consapevole?
Sì, l’adozione di uno stile frastagliato è ben consapevole. Fa parte del pensiero libertario che si sottrae alle ordinate sequenze del plot. Anzi, il plot qui è obbligato a una salutare magrezza.

La cognizione del dolore del mondo procede in parallelo, quasi un percorso di reciproca scoperta, alla cognizione del (proprio) dolore fisico da parte dell’io narrante Nazario Giannutri, come se l’uno svelasse progressivamente l’altro.
Mi sembra una interpretazione perfetta. Nella domanda c’è già insita la risposta.

Nel libro lei critica la Yourcenar della postfazione di Memorie di Adriano, elogia Svevo, rimprovera l’ossessione senile-sessuale dell’ultimo Roth: è un caso che anche questi autori, come del resto fa lei in La strada di ritorno siano autori ossessivamente interessati dal legame inscindibile fra eros e thanatos?
A parte Svevo che pone una questione centrale sul “truffare” la vita o la morte, e dunque in linea con il mio argomento; a parte il legittimo richiamo di eros e thanatos, l’attenzione ironica dedicata alla Yourcenar e all’ultimo Roth –autori amatissimi– va a nutrire le intolleranze, i rifiuti, le distorsioni crescenti del personaggio allo sbando. Così avviene per gli studenti, le tesi di laurea, la colf, lo stadio olimpico, il chiasso dei bambini, gli agglomerati urbani (“biomassa insalsicciata”)… L’umor nero, quando entra in gioco, non concede sconti.

Il suo libro suona anche come una clamorosa, efficacissima smentita a quel pregiudizievole e stereotipato luogo comune di certa critica che vuole la narrativa italiana paralizzata da una specie di peccato originale (l’ipertrofica, ostentata esibizione del proprio ego), quella che, con un termine sciocco e dispregiativo, viene liquidata come “letteratura ombelicale”. Con lei ci si muove in tutt’altra direzione.
Francamente ignoro il fascino dell’ombelico. Preferisco altri doni di Venere. Di ombelichi ne vedo fin troppi sul pancino delle ragazze. Non sempre belli, hanno comunque il merito di essere autentici. Perché aggiungere surrogati letterari?


16/09/2005 Diario
L'insopportabile vita, di Massimo Onofri


La strada di ritorno, l’ultimo romanzo di Giuseppe Cassieri, si apre con una lettera dell’io narrante, Nazario Giannutri, a Gerard Roussel, Promotore del Comitato diritti civili in difesa di Free Exit: “Sostengo con forza accresciuta l’iniziativa di pubblicare un dossier plurinazionale sul tema che ci sta a cuore e presentarlo a Strasburgo, nella speranza che si possa scongiurare un processo infamante a carico di persone di alta statura morale, dedite alla “lotta per la vita” quanto più, paradossalmente, esercitate a garantire il dolce afflato della morte”. La Free Exit, con tanto di sito dettagliato, è un’organizzazione assistenziale che, con l’ausilio di medici e psichiatri all’uopo preparati, s’incarica di seguire, non solo nella fase terminale, tutti coloro che hanno deciso di togliersi la vita. Con il risultato di riguadagnarne la grande maggioranza alla vita: come capita a Nazario (di qui il significato del titolo), che si dispone a darne testimonianza con un testo, coincidente, appunto, col libro che ci troviamo a leggere.
Non siamo di fronte al Cassieri cui siamo più abituati: quello satirico e comunitario, implacabile nel restituirci certi meccanismi di infatuazione o delirio collettivi. Lo scrittore di queste pagine si confronta invece, e senza indugi, con uno dei più misteriosi assilli della coscienza di fronte a se stessa, quando la vita non pare più sopportabile: la tentazione del suicidio, qui declinato anche per il verso d’uno dei temi più scottanti dell’etica contemporanea, quello dell’eutanasia o della “buona morte”. E tutto ciò, sullo sfondo d’un romanzo affollato di personaggi –e dentro l’inevitabile spirale di un’autoanalisi, tanto necessaria quanto inutile, che s’interroga sulle radici più o meno antiche d’un improvvisamente sopraggiunto e sempre più incalzante male di vivere– dove giganteggia il rapporto con un fratello più grande, brillante e altruista, il quale, a differenza di Nazario che l’ha “fortunatamente” ritrovata, la speranza “l’aveva tragicamente perduta”, schiantandosi sugli scogli delle acque messapiche.
La questione è di quelle sempre soffocate dalla reticenza: non si sa se più per scandalo sociale o angoscia individuale. Tanto più interessante, allora, andare a vedere come se la cava uno scrittore che s’è formato contraendo i virus d’una cultura letteratissima, tra Ronda ed Ermetismo: i nomi, qui evocati, di Quasimodo e Libero de Libero valgano come autodenuncia. Cito a caso: “Capelli color rame, statura innalzata da stivaletti omertosi, esuberanza di proteine”. Dove conta soprattutto la sopraelevazione metaforica dell’aggettivo “omertosi”: con suggestivi approdi conoscitivi della scrittura. Senza trascurare la forza biologica –in funzione del ritratto tra etico ed erotico del personaggio di Giulì– del sorprendente complemento di specificazione: “di proteine”. Ma sarà pure da registrare la similitudine: “come un’ape che torna a suggere la stessa acacia”. A dire di un processo psichico che ha a che fare con il “display della mente”. Laddove la lingua pigia spesso sul pedale dell’antologia, sempre ben registrato. Contravveleni della letteratura. Ieri, in vista di un’ironia spinta fin quasi al sarcasmo. Oggi, perché un romanzo d’aspra moralità sia messo al riparo da ogni retorica dei sentimenti.


01/10/2005 L'Indice
Matrice Sud, di Cosma Siani


Di alcuni scrittori l’immagine è parziale perché risale appunto all’epoca. Così di Cassieri, collocato da Crovi in un piccolo gruppo che ha tentato un’ “opposizione individuale alle impostazioni moralistiche e comunque culturalmente conservatrici della realtà meridionale”. Il giudizio si basava sulla fase neorealista di Cassieri. La sua evoluzione delinea invece un impegno compatto, intellettuale se non ideologico e un persistere del Sud in forma di sostrato plasmante, di matrice. Così è per il ventunesimo romanzo dello scrittore pugliese, La strada di ritorno: narrativa a tema, dove il tema è l’eutanasia come oggetto di speculazione intellettuale. Il dibattito è proiettato nelle peripezie psichiche di Nazario, professore universitario che, in preda al male oscuro, si mette in contatto con l’agenzia Free Exit, la quale favorisce la libera scelta di uscire dalla vita, ma “solo quando risultano fallimentari le strategie della dissuasione”. Il trattamento dell’agenzia compie il miracolo di fargli superare le pulsioni di morte e riconnetterlo all’esistenza propria e al mondo. Il narratore stila un diario della malattia, in cui ripercorre la propria infanzia in un paese della Ciociaria, l’esperienza della scuola, le vicende familiari, segnate dal suicidio del fratello Ilario; e poi, con molto rilievo, gli amori della sua vita: la moglie Elena che lo lascia per un’unione lesbica, la cantante lirica Nadia, che scompare nel nulla; e infine, inesorabilmente sviscerata, tutta una serie di agenti nevrotici quotidiani.
Il tema, sviluppato nel controllatissimo stile che ci è familiare (con uso insolito di vari anglicismi), è trapunto dei ben noti motivi cassieriani: la topografia di un Meridione acutamente esplorato, perfino nei cibi e sapori peculiari, la microstoria locale, l’amore per il dato erudito, il folclore e i riti religiosi, il sottile gioco dell’erotismo mai esposto come sessualità bruta e spesso alleggerito in toni umoristici, la donna intellettuale e sofisticata, il ritiro di studio in un’oasi appartata, la parodia delle mode eccentriche.


09/12/2005 - Rinascita
La ricerca della "morte sicura", di Mario Lunetta


Non so quanto la critica abbia sottolineato quello che a me pare il carattere fondante della narrativa di Giuseppe Cassieri, che nei suoi romanzi e nei suoi racconti si accampa in posizione centrale dagli esordi (e segnatamente a partire da testi già concepiti secondo un’inclinazione satirica, grottesca e di costume come La cocuzza, 1960 e Il calcinaccio, 1962) fino alle prove più recenti: quella forte curvatura allegorica, voglio dire, per cui la scrittura, sempre tersa e abilissima, impeccabile pur nella sua agilità e nella sua scherma retorica nutrita di ironia (ironia leggera e divertita, o ironia che lascia lividi di alone profondo), si afferma in virtù delle sue doti intrinseche nel momento stesso in cui fornisce al lettore-interlocutore gli elementi chiave del proprio prodursi e della sua stessa necessità, quando non pretenda da lui una partecipazione attivamente critica. Il discernimento insomma, in uno scrittore della consapevolezza e della classe di Cassieri, non è mai gratuito, ma rimanda all’etimologia latina (devertere, cioè “volgere in altra direzione”), per farsi strumento di un’ottica straniata. È ovvio che un tale genere di procedura strategica non possa che puntare su una forte accentuazione del giudizio, accentrato sempre su certe problematiche del nostro presente incrociate fra psicologie individuali e dinamiche del collettivo. Eppure, niente resta più lontano da questa letteratura delle facili soluzioni della narrativa sociale di stampo tradizionale, descrittiva e documentaria. In Cassieri il sociale è aggredito per linee oblique, e continuamente rovesciato nel suo gioco nonsensico. Un occhio acuto come quello dello scrittore pugliese, esercitato in raffinati raffronti di cultura cosmopolita, non può, così, che individuare con la necessaria crudeltà le storture, le incongruenze, infine l’arte del sopruso e del raggiro che sono ancora, ohimè, tanta parte del cosiddetto “stile di vita” di questo paese. Cassieri non fa sconti.


La stessa procedura anima un romanzo come il recente La strada di ritorno, libro in cui scorrono rivoli di eros in prepotente mescolanza con torbidi torrenti di thanatos, e nel quale –come spesso avviene nell’autore di Esame di coscienza di un candidato (1993)–  l’istinto del narratore si sposa brillantemente con l’acume del saggista. Ne è protagonista il professor Nazario Giannutri, il quale si rivolge al promotore parigino del Comitato Diritti Civili in difesa dell’organizzazione “Free Exit”, al fine di scongiurare –come egli stesso scrive– «un processo infamante a carico di persone di alta statura morale, dedite alla “lotta per la vita” quanto più, paradossalmente, esercitate a garantire il dolce afflato della morte».


Giannutri è amaramente consapevole di vivere, coi suoi cinquantasei anni, circondato da quell’agglomerato umano senza volto e profilo che egli chiama biomassa, anzi si rende conto di esserne parte, malgrado la differenza che possono anche fare le sue qualità intellettuali e il suo spessore umano. A due anni ha perso i genitori nel terremoto di San Donato Valcomino, rimanendo orfano col fratello maggiore Ilario. Come un viatico, lo accompagnano al superato esame di maturità le parole di un suo docente: «Tu, Giannutri, sei un eretico nato. Non è una gran fortuna. Prepàrati a sopportarne il peso». A Roma, trentasettenne associato all’Università, il nostro eroe impalma la bella Elena, ventottenne traduttrice simultanea, dalla quale si separa quietamente tre anni dopo, quando lei gli confessa di avere scoperto le sue vere tendenze e di essere innamorata di un’altra donna: la milanese Edy.


Anche suo fratello Ilario, natura appassionata e intelligente, cova una sua infelicità non solo coniugale. Sua moglie Michela, infatti, sembra entrata in un tunnel depressivo dal quale non riesce ad uscire, minacciando sempre più frequentemente il suicidio. Alla fine, come una beffa (o un’oscura attrazione) la morte prematura ghermisce Ilario: un tuffo dallo scoglio di Pizzolungo sulla costa dei Messapi che agli occhi di Nazario Giannutri sa tanto di pulsione autodistruttiva. Michela, elaborato un congruo lutto, superata la crisi «si godeva un nuovo consorte».


Il gioco del romanzo di Cassieri è avvolgente e procede per un agglomerato di digressioni di varia natura (culturali, aforistiche, di memoria privata, di natura ideo-politica): un flusso che si dirama con estrema pluridirezionalità, come è tipico di tutte le operazioni allegoriche, per poi finire stretto nell’orizzonte “ricostruttivo” del professor Giannutri che, in quanto storico di professione, tende a non trascurare i dettagli, i trucioli, la limatura del mondo. Pian piano egli avverte la sempre più persistente presenza della morte in tutti gli atti della propria esistenza. «Vedevo, toccavo, ascoltavo d’istinto nel mucchio delle voci e delle immagini cose e persone che alludevano alle sirene della morte, al culto e alle modalità della morte». Si fa progressivamente strada, nelle circonvoluzioni più segrete del suo pensiero e negli angoli più riposti della sua psiche, una specie di effetto calamitante nei confronti della repulsiva categoria (con susseguente pratica) denominata eutanasia. La buona morte, così diversa dalla stupida, brutale, fanatica “bella morte”, cara a tutti i fascismi. Giannutri si ritrova, inoltre, esasperato dal timore di una morte apparente. Egli desidera, quando sarà, una “morte sicura”, dubbio che lo convince a inscriversi a un’associazione, tesa a garantire la volontà di non essere inumato o sottoposto a prelievi di organi se non dopo che un medico dell’associazione avrà sancito il decesso. Così confessa: «Stordito e insieme attratto da quel procedere nelle terre della comare secca, mi iscrivo seduta stante all’associazione e predispongo il pagamento optando per la tessera anziché per la medaglietta. (Tessera e medaglietta risulteranno poi superflue, essendo già acquisite nel corredo di Free Exit)».


Giannutri è convinto che il vivere purchessia coincida con una forma di crudeltà insensata. La sua natura di “eretico” e di “guastatore” delle certezze acquisite lo porta a una polemica serrata con un clinico di fama, negatore della buona morte, che egli pubblicamente gratifica del titolo di “tartufo”. Il mondo in cui vive gli piace sempre meno, cosa di cui si accorgono oramai anche i suoi studenti. L’assillo della “morte incompleta” gli deteriora i giorni e le opere. Durante un soggiorno in una località della Valnerina, non ce la fa a soddisfare le richieste di un paraplegico di aiutarlo a morire, e si sente una specie di disertore. Lo rimetterà in sesto la permanenza in una clinica della Free Exit sulla costa atlantica, da cui uscirà rigenerato nelle sue energie psichiche, dotato di un’altra sicurezza che si chiama speranza: quella che suo fratello Ilario aveva tragicamente perduta. Ora egli ha un «bonus duramente conquistato da far valere», e sa che la sua morte, quando verrà, non avrà le sembianze di un incubo, ma –materialisticamente–  quelle di una conclusione, più che ovvia, legittima.



01/01/2005 - Incroci
La taumaturgia dell’impalpabile, di Lino Angiuli



Chi si accinge a frequentare una nuova tappa dell’itinerario narrativo di Cassieri sa di essere un lettore garantito: i suoi libri sono costruiti in modo tale che l’utile (la lezione, il messaggio, il senso) sia offerto attraverso una dose cospicua di dilettevole (il piacere, la curiosità, il coinvolgimento). Anche questa volta egli mantiene in pieno le promesse su entrambi i versanti, portandoci con passo leggero a praticare riflessioni impegnative offrendoci un savoir faire narrativo carico di arguta e fresca intelligenza.
Con una scrittura vigile eppure brillante, colta eppure snella, solida eppure sottile (una scrittura grazie alla quale la psicanalisi diventa la «taumaturgia dell’impalpabile» e gli psicoterapeuti «dragatori di melmosi fondali», giusto per fare un esempio), Cassieri s’accosta al tema del «maldivivere» contemporaneo, che alcuni hanno chiamato «male oscuro», altri depressione, altri ancora malattia dell’anima: quella condizione ‘similmortifera’ sempre più diffusa che colpisce coloro i quali, a un certo punto del proprio percorso esistenziale, per una ragione o per l’altra, ma il più delle volte senza una ragionevole “ragione”, perdono il contatto con ciò che li ha riempiti di vita fino a quel momento, cadono in un letargo pulsionale e avvertono il fascino del cupio dissolvi, ovvero quel desiderio «contro natura» di dimissionarsi dall’esistenza senza il conforto di un perché. La ragione (“Cartesio” dice Cassieri) si arrende alla sfera emotiva (“Pascal” dice Cassieri), sbanda, si arena e non sa che strada prendere.
La strada di ritorno è proprio il sentiero che, alla fine del racconto, si aprirà a sorpresa di fronte all’anima ammaccata del prof. Giannutri, il protagonista che scrive in versione autobiografica. Prima di imboccarla, però, questo docente universitario in scienze umane compie un viaggio mentale alla ricerca delle radici del suo malessere: un malessere inspiegabile, nel senso che non può essere spiegato dalla sua scienza accademica né dalla sua predilezione per il «comune buon senso» di cui è studioso (una contraddizione in termini di quelle care a Cassieri, perché gli consentono di esercitare quel tipo speciale di ironia per così dire subliminale in cui egli è maestro).
In questo modo il viaggio mentale, in cui peraltro s’incentra la fabula, diventa la fertile occasione per una esuberante peregrinazione tematica, ai limiti del flusso di coscienza: un vero solletico per il lettore che, tra una divertente divagazione del suffisso “ismo” e un elenco degli appellativi da attribuire al sesso femminile, tra la sorniona manipolazione di versi di Libero De Libero e un brillante sconfinamento nel repertorio della musica classica, accompagna con simpatia questo antieroe che decide di sfidare il tabù della morte «assistita». Anch’egli, del resto, come tutti i rappresentanti del paesaggio umano anagrafato e indagato dall’autore, è un personaggio doubleface, un uomo che ha accumulato un’enorme distanza tra le profondità del sé e i bisogni dell’io.
È la stessa distanza che, superati i limiti di guardia, può procurare disadattamento, goffaggine comportamentale e, in fondo in fondo, annichilimento emotivo simile alla morte. Di fronte alla quale il nostro professore vede aprirsi un bivio: andarle incontro in libera uscita (Free Exit si chiama il luogo dove si affronta questo tipo di condizioni «terminali»), o trovare una possibilità di tornare in vita. Senza volerne svelare il finale, possiamo almeno provare a sintetizzare così la «morale della favola»: la vita trova un senso solo quando ha imparato a integrare la morte; ovvero: solo chi riesce a guardare negli occhi la morte può rimettersi sulla strada della quotidiana degustazione della vita.


12/07/2006 - Zip Sera
All'ombra di un libro, di Alfonso Pozzi


Nella rivista “l’immaginazione” 211 (marzo-aprile 2005), curata da Anna Grazia D’Oria, si trovano i capitoli iniziali del romanzo di Giuseppe Cassieri, La strada di ritorno, assieme ad altre segnalazioni di libri dell’editrice Manni. La rivista è anche un laboratorio di scrittura, oltre che un catalogo ragionato delle novità (proprio l’ultimo fascicolo, il 212, si presenta sotto forma di catalogo 2005: tutti i libri pubblicati, più di 900 titoli, da un’edizione leccese in vent’anni).
Cassieri, nato a Rodi nel 1926, ha dichiarato di se stesso: “Se non insorge un dolore, un amore, una profonda dissonanza col mondo esterno, un sentimento largo e forte nella mia coscienza, la penna non si muove, e io non la forzo, aspetto che in lei e in me torni quel certo piglio”. In effetti, anche in La strada di ritorno, si nota la “profonda dissonanza col mondo”, detta immediatamente: “Licenziarmi dal mondo, licenziarmi senza giusta o ingiusta causa, senza un danno irreversibile, e anzi in sostanziale armonia fisica”.
Il protagonista si autoanalizza, ritornando con la memoria alla morte dei genitori, al suicidio del fratello, ai suoi studi e ai suoi amori perduti, alle sue malattie, alle lezioni universitarie, e si domanda se è possibile vivere senza speranza, sempre trascinati in avanti dalla disperazione o, addirittura, nel caso di malati terminali, spinti a un’infelice sopravvivenza. Così si confronta con se stesso e con il tema dell’eutanasia, prima di decidere di affidarsi a una comunità terapeutica per provare una possibile via d’uscita. Cassieri movimenta il racconto di un’esistenza turbolenta e difficile, giunta a rifiutare il mondo, con un linguaggio solo a tratti mosso in più direzioni, ma spesso ricondotto nell’alveo di una risposta da dare al mistero e al dolore della vita.
Di Cassieri, parla Raffaele Crovi a p. 114 di Diario del sud, appena pubblicato da Manni, e certamente degno di essere letto, nelle moltissime osservazioni, sia di viaggio, che di letture. La terra del Sud e i racconti del Sud sono esaminati dal milanese Crovi con intensa ammirazione.


21/03/2006 - Paese Nuovo
Il lico Cassieri, di Eliana Forcignanò


Giuseppe Cassieri, autore poliedrico che, oltre alle numerose opere di narrativa ha scritto anche per il teatro e la televisione, ha presentato a Lecce il suo ultimo libro dal titolo La strada di ritorno pubblicato da Manni. Il libro è una storia tesa fra due poli: morte e speranza. “Non è un’opera autobiografica -precisa Cassieri- perché il plot è assolutamente inventato, tuttavia m’interessava trattare il tema della morte e, come sempre, indurre i lettori alla riflessione, poiché io non credo in una letteratura fine a se stessa o, ancor peggio, creata per l’evasione”.


Per il ciclo di incontri letterari promossi dal Centro Studi”Roggerone-Prontera”, lo scrittore Giuseppe Cassieri ha presentato lo scorso venerdì il suo ultimo libro dal titolo La strada di ritorno edito da Manni. Sede dell’incontro, come sempre, il monastero delle Benedettine: dettaglio curioso per un laico come Cassieri, benché lui stesso si dichiari “un laico non di professione, bensì invidiosissimo di chi crede” e questa invidia sembra lo accompagni da lungo tempo, come un bambino povero che, dalla sua finestra, vede i coetanei ricevere splendidi doni il giorno di Natale. “Invidio chi crede -dice Cassieri- perché la fede costituisce un sicuro gancio di certezze a cui affidarsi: chi non crede rinuncia a questo saldo riferimento”.
Uomo di singolare carisma Giuseppe Cassieri, capace di volare molto lontano con il pensiero e di seguire alla perfezione l’esempio socratico: ironia e maieutica per dialogare con gli altri e ingenerare il dubbio, non certo per il mero gusto di una provocazione fine a se stessa, ma per schiudere le portealla ricerca di una verità che è sempre in fieri, sempre necessita di essere completata e non è mai stabilita una volta per tutte. “La corrente di pensiero che più sento vicina alla mia condotta nella vita, -asserisce Cassieri laureato in filosofia morale- è lo Scetticismo. Un’interpretazione errata e deteriore non ha tenuto conto dell’etimologia del termine scepsi, proveniente dal greco antico, il cui significato è proprio quello di riflessione attenta e problematica su tutto: Michel de Montaigne era uno scettico e io amo molto il raziocinio e la lucidità critica dei Saggi, così come il suo atteggiamento di profonda serenità nel considerare la morte un fatto naturale da attendere senza drammi, anzi il nostro filosofo diceva proprio che l’avrebbe aspettata raccogliendo cavoli in giardino”.
La morte protagonista de La strada di ritorno  -ha giustamente osservato Angelo Bruno introducendo l’Autore- insieme con la speranza: binomio che, a una prima impressione, pare stridere fortemente, dunque non vi è altra alternativa per capire se e come tutto si componga in un’armonica narrazione che leggere il libro. “Non amo il termine romanzo, -precisa Cassieri- perchè lo trovo piuttosto ambiguo e poco efficace. Preferisco narrazione”. E narrazione sia: ciò nulla toglie alla curiosità dei potenziali lettori presenti alle Benedettine che fissano con le pupille sgranate e ascoltano con il fiato sospeso Giuseppe Cassieri, pugliese di nascita, difatti è nato a Rodi Garganico, romano d’adozione.
La strada di ritorno -dice Cassieri- non è una narrazione autobiografica perchè il plot è completamente inventato; da parte mia, vi era però il bisogno sottostante di esprimere il problema della morte ricorrendo allo strumento della letteratura. Vedete, io ritengo che la letteratura non possa starsene rinchiusa in una torre d’avorio, lontana  dalle tempeste del mondo: senza dubbio, esistono autori che scrivono per evadere dalla realtà, io, invece, scrivo per affrontarla; cerco di indurre i lettori alla riflessione, non alla fuga e traduco nella mia inventiva temi, emozioni, sofferenze che coinvolgono e scuotono le coscienze. Esemplificando, il mio Diario di un convertito, edito da Mondadori nel 1986, è stata la prima opera narrativa a occuparsi dei rapporti fra Occidente e Oriente: ora, negli anni Ottanta, questo libro poteva circolare liberamente e ricordo che, dopo la pubblicazione, l’Espresso incaricò il suo vaticanista Sandro Magister di svolgere un’accurata inchiesta sul numero di italiani convertiti al credo musulmano. Non vi nascondo che, nel 2006, la Mondadori ha timore di ristampare il Diario, perchè l’opera potrebbe turbare il già precario equilibrio fra Oriente e Occidente: questo dimostra quanto poco lineare sia l’evoluzione umana. Non è affatto vero che il futuro è portatore di un continuo miglioramento, invece, dobbiamo avere paura dell’involuzione che la nostra specie ha subìto, soprattutto la tolleranza, così come Voltaire la intendeva nel suo Trattato, è oramai diventata una chimera per il mondo: ognuno è convinto di poter affermare le proprie idee, soltanto prevaricando gli altri con la violenza”.
Cassieri racconta con un sorriso di quando fu invitato a Vicenza, nota roccaforte del Cattolicesimo, per presentare Diario di un convertito: “Erano convinti che si trattasse della storia di un musulmano convertito al cristianesimo, poi scoprirono che era esattamente il contrario e mi telefonarono con molto imbarazzo, chiedendo implicitamente di annullare la presentazione e io rispettai la loro volontà”.
Il libro edito da Manni non ha suscitato scandalo nel mondo cattolico e lo hanno dimostrato le critiche favorevoli de L’Osservatore Romano che ha titolato: “Nonostante tutto vince la vita”. In verità, trionfa la speranza sui propositi di morte del protagonista depresso e sull’orlo dell’abisso. “Sì, -ammette l’Autore- Nazario Giannutri, protagonista de La strada di ritorno, trova alla fine una possibilità di salvezza ed è per questo che L’Osservatore ha voluto e potuto occuparsi del mio libro che, in fondo, è un’opera ottimista: l’amore di una donna, la musica, il pianto liberatorio forniscono a Nazario la forza di andare avanti e lo aiutano a individuare le ragioni per cui vale ancora la pena di vivere, anche se il mondo non è quello che noi vorremmo sognare”.
Altamente poetica la conclusione di Cassieri che, com’era da aspettarsi, ha dovuto fronteggiare il fuoco incrociato delle domande da parte del pubblico: certo, non si possono nemmeno sfiorare corde sensibili quali il suicidio e l’eutanasia, evitando di suscitare interrogativi e obiezioni. Giuseppe Cassieri ha risposto con serafica calma a tutte le domande, esponendo il suo pensiero in maniera chiara, onesta: “Io non condanno assolutamente il suicidio, qualora l’individuo non riconosca più di fronte a sè altra possibilità. Esistono casi di depressione cronica in cui il soggetto, dopo aver tentato tutte le terapie psicologiche e farmacologiche, non riesce a vedere altro che la propria disperazione e si sente scivolare sempre più in fondo: ebbene, se questi desidera morire, noi non abbiamo alcun diritto di ostacolarlo, di costringerlo a lottare per la morte, poiché solo per la vita si può lottare. Analogo è il discorso per un malato terminale: se nessun luminare, nessuna equipe specializzata è in grado di far nulla per alleviarne la sofferenza, se il malato chiede di morire pur di sottrarsi all’inferno in cui si è ormai tramutata la sua vita, perchè non ricorrere all’eutanasia? Perdonate, ma qualsiasi forma di sofferenza inutile è per me impossibile da concepire. La mia idea è che ciascuno di noi debba godersi la vita, senza aver paura della morte, perchè questa è un fatto naturale, tuttavia la sua naturalezza risiede anche nella possibilità che noi uomini abbiamo di ridurre il dolore e di aiutarci a morire, ove le circostanze lo richiedano e nessuna cura abbia più effetto, con dignità”.
A conferma dielle parole pronunciate dall’Autore, Angelo Bruno ha dato lettura al pubblico di un passo de La strada di ritorno in cui il protagonista Nazario Giannutri discute animatamente con un certo dottor Sigonà. Riportiamo il passo integrale. Esponendo il caso di un contabile della Cassa di Risparmio che, accusato di frode - e, troppo tardi, riconosciuto innocente! - si era gettato dal ponte nel Tevere, Giannutri chiede al medico Sigonà: “Una sola domanda. Se quell’uomo intenzionato a togliersi la vita fosse stato un suo paziente e le avesse chiesto di essere aiutato, cristianamente aiutato, assistito nel suo desiderio di uscire dal mondo, lei lo avrebbe aiutato, assistito?”
Risposta di Sigonà: “No! Sarebbe un assassinio, un omicidio anche se il tizio ammazza se stesso. No! Se uno vuole suicidarsi lo faccia con i propri mezzi, a proprie spese. Non può chiedere a me, alla mia coscienza, di aiutarlo. Non farei mai una iniezione letale. La considero ripugnante”.
Il nodo non è semplice da sciogliere e, naturalmente, riguarda la coscienza di ognuno: di chi chiede “la buona morte”, di chi la impartisce, di chi si rifiuta d’impartirla, attenendosi alla legge italiana e ai dettami del Cattolicesimo. Eppure Giannutri utilizza un avverbio non casuale che è “cristianamente”: è possibile “cristianamente” aiutare a morire?
Probabilmente, Cassieri fa riferimento a un nucleo di pietas che dovrebbe albergare nell’animo di ciascuno e che ben si distingue dall’insieme di regole della religio: la pietas esorta alla fratellanza e chiede all’uomo di amare l’altro uomo come se stesso e, dunque, di soddisfarne i bisogni, ove questi non ledano la libertà di altri uomini; la religio impone all’uomo di rispettare e sottomettersi a una serie di regole e precetti che fondano una fede “positiva”, ossia costruita dagli uomini su questa terra. Qualcuno, dal pubblico, ribadisce che noi non abbiamo alcun diritto di dare al prossimo la “buona morte”, ma Cassieri scuote il capo sorridendo e risponde: “Questo diritto ci deriva dall’amore che nutriamo nei confronti del prossimo e amare il prossimo come se stessi non è forse il comandamento che Cristo diede ai suoi discepoli prima di morire?”.


Quando tutto sembra perduto, l’amore aiuta a ripartire


Nazario Giannutri è un uomo come tanti, un docente universitario che, però, ha deciso di “licenziarsi dal mondo”, licenziarsi “senza giusta o ingiusta causa” e “in sostanziale armonia fisica”. No, non si tratta di un improvviso desiderio d’ascesi, di una sete di Nirvana sorta in maniera inspiegabile: per Nazario, vi è un solo modo di ottenere licenza dal mondo e questo modo è il suicidio.
Accade che ci si stanchi di vivere, senza una ragione ben precisa; accade di sentirsi vuoti e stanchi, così, di colpo, coltivando l’impressione che nulla più si ha da offrire al mondo circostante, nulla da ricevere, se non dolore e vano tormento. Allora, si delinea l’opprimente prospettiva di giorni tutti uguali, peggiorati da una invadente solitudine e si avverte più vicina la vecchiaia, il “nero di seppia” che non vorremmo mai constatarci addosso. Nazario Giannutri è in piena crisi depressiva: ipocondria, cattivi pensieri, tristi ricordi e diffidenza nei confronti della “biomassa insalsicciata” che è il consorzio umano incapace di prendere coscienza, di ribellarsi all’ingranaggio “Prod-Cons.” (Produci-Consuma) che, oramai, rappresenta la cifra caratteristica dell’epoca attuale. No, a ben riflettere, Giannutri non è un uomo come tanti: ha un plus-valore di sensibilità cui bisogna ascrivere la colpa del mancato “adattamento” alla specie e lo sguardo critico, diffidente, nei confronti della realtà. Di questo personaggio, partorito dall’inventiva dello scrittore Giuseppe Cassieri, seguiamo le vicissitudini narrate in un libro che merita davvero di essere letto e sottoposto a riflessione attenta. Titolo: La strada di ritorno (Manni Editori, 2005). Cassieri con la sua abilità ormai consolidata di narratore, traccia il difficile percorso esistenziale di un individuo che, pronto a congedarsi dalla vita, riscopre, inaspettatamente, le ragioni per andare avanti, per continuare a rimanere in questo mondo ove “c’è molto da operare”. A salvarlo è una donna, che pure non gli è vicina materialmente, tuttavia, quel che conta è la vicinanza del pensiero, del cuore: Nadia Ruiz, talento musicale che Nazario Giannutri aveva ammirato per la prima volta a Salisburgo, nella Creazione di Haydn, e di lei si era follemente innamorato. L’idillio amoroso era durato per due anni e cinquantatre giorni, fino al tragico avvento della “sparviera”, una cordite cronica e ipertrofica, che aveva costretto la divina Nadia a ritirarsi non solo dalle scene, bensì anche dal mondo. Fuggita, come dissolta nel nulla, però, non senza pregare familiari e amici di evitare qualsiasi ricerca. Ebbene, solo per salvare il suo Nazario, la cantante ricompare e lancia un messaggio di speranza all’amato. A rintracciarla è un’associazione, la Free Exit, cui Giannutri, inizialmente, si rivolge per essere aiutato a morire e viene, invece, salvato.
Soprattutto nelle ultime pagine, la narrazione diviene un filo teso tra due poli: morte e speranza. Nessun vano moralismo da parte dell’Autore: è lecito rinunciare a vivere nella misura in cui non vi è alcuna speranza di uscire dal tunnel della disperazione, esattamente come, per un malato terminale, è lecito ricorrere all’eutanasia. D’altronde, Free Exit non significa altro che “buona uscita” e tale associazione avrebbe accompagnato Giannutri a morire se, per lui, non vi fosse stata alcuna speranza. Suicidio ed eutanasia fanno sentire la loro presenza nel libro in maniera inequivocabile: il fratello del protagonista, Ilario, si suicida perchè non può più resistere al ricatto della moglie ammalatasi di depressione dopo aver ricevuto la notizia di essere sterile; qualcosa, ad ogni modo, trattiene Nazario ed è la paura di non ottenere ciò che lui definisce “morte completa”. In breve, possiamo noi esser sicuri di morire completamente e interamente nel momento in cui compiamo l’atto suicida? Al di là di quanti, per incertezza o paura, peccano nell’esecuzione e si ritrovano, ad esempio, condannati a vita su una sedia a rotelle, non abbiamo alcuna garanzia su qualità e durata del processo di disfacimento delle nostre cellule; basti pensare che le scorie radioattive impegnano anni ad essere assorbite dall’ambiente. E quelle umane? Si soffre dopo la morte? E, nell’istante preciso in cui si muore, quale immane sofferenza prova l’individuo e quali sono i pensieri che lo attraversano? Simili interrogativi si susseguono nella mente di Giannutri con un ritmo vorticoso e ossessivo, intanto aumentano i dolori fisici, in particolare le “spine”, mentre l’immaginazione si lancia al galoppo verso mondi inesplorati e impensabili combinazioni di personaggi, tempi e luoghi. Non esageriamo nel dire che vi sono parti del testo in cui Giannutri si lascia andare a un vero e proprio delirio che, a volte, deborda dai confini della sua mente per investire chi gli sta intorno. Clamorosa la scena in aula, con gli studenti: tema del dibattito è la New Age che il protagonista insulta quale minestrone di argomenti e motivi poco affini l’uno all’altro: insomma, questa Nuova Era sarebbe un autentico esempio di “minestra maritata”, piatto contadino che si cucina mescolando cerali, legumi, erba santa dei monti Tifatini, cipollaccio sannita, cacio di Battipaglia e altri ingredienti decisamente eterogenei. Gli studenti ascoltano allibiti, asterrefatti, finchè uno fra loro, proveniente dal Testaccio, trova il coraggio di alzarsi e dire: “Professò, dica la verità, a lei non va bene più niente di questo mondo”. Come smentirlo? I suicidi si giustificano per la maggior parte con il rifiuto in toto del mondo, ma è anche vero che basta una piccola cosa, un dettaglio per invertire di colpo la rotta e ritornare alla vita: il ritorno, senza dubbio, non equivale a cancellare l’esperienza vissuta, il dolore e i tormenti attraverso i quali si è passati: insomma, non si tratta di un ritorno sui propri passi che è rigetto del passato appena trascorso, bensì di una svolta consapevole, di un ritorno a se stessi con una coscienza più lucida e forte che che sa guardare al futuro e progettarlo nel migliore dei modi, tenendo in debito conto le incognite della realtà.


29/04/2006 - www.teatronaturale.it
L'accettazione lucida e consapevole del proprio dovere di vivere, di Antonella Casilli


Nel mare magnum di best sellers lunghissimi e, spesso, purtroppo noiosissimi, il lettore esigente trova, a mò di zattera di salvataggio, bei romanzi brevi e conclusi, di frequente, ad opera di case editrici di nicchia come nel caso del romanzo di Giuseppe Cassieri, La strada di ritorno, edito da Manni.
In quest’ultimo lavoro Cassieri, sotto forma di resoconto autobiografico, offre al lettore una chiave di accesso ad argomenti morali, traslando la realtà personale del protagonista in una sorta di lente attraverso la quale analizzare la situazione sociale.
L’io narrante è un intellettuale, il professor Nazario Giannutri, che per offrire una testimonianza a favore di un ente morale, “Free Exit”, sorto per garantire il “dolce afflato della morte ” si vede coinvolto a ripercorrere, con scrupolo investigativo, la propria vita.
Al fine di spiegarsi il suo desiderio di rompere il patto con la vita, procede ad una sottile analisi del proprio pregresso dove l’aborto, la mancanza di figli, l’eutanasia sono inseriti ed analizzati all’interno di un’etica della disponibilità dei confini della vita umana.
Pur palesando il dubbio che alcuni eventi potrebbero non aver spostato il proprio asse d’equilibrio, sente la necessità di registrarli.
Il primo è il matrimonio con una donna, una bruna, intensiva e totalitaria, donna dal pensiero laico, sostenitrice del pluralismo sessuale, che in privato si attiene al precetto delle caste nozze anche al fine di scongiurare una maternità non desiderata. E quando l’inevitabile avviene, incursione veloce e discreta in clinica privata e successiva separazione (per dare alla bruna l’opportunità di fuggire tra le braccia di una persona del suo stesso sesso che le ha fatto conoscere la felicità di essere al mondo) concludono un capitolo di vita.
Beffarda sorte vuole che la consorte dell’amato fratello non possa avere figli e catapulta i due in una girandola di scienza e slanci mistici, bestemmie ed invocazioni.
Si apre un bivio: adozione o inseminazione? Scartate entrambe, questa donna, così apparentemente desiderosa di maternità, è d’accordo con il marito ad escludere l’inseminazione, ma non vuol neanche dare famiglia ad un bimbo in fasce che non l’abbia.
Sarà il menagè difficile che spinge l’uomo a tuffarsi da uno scoglio sulla costa dei Messapi?
Certamente regole etiche lo vincolavano a tenere fede alla propria parola anche quando all’orizzonte non si profilano possibili momenti di benessere.
“Eppure, sebbene dolorosi, sebbene silenziosamente corrosivi, non credo che il flop di un matrimonio e lo strappo dell’unico congiunto venuto al mondo dal medesimo sangue abbiano incoraggiato il mio vuoto a perdere”.
Mentre il professor Giannutri procede ad una disamina della propria esistenza, poniamo un momento l’attenzione sulla scrittura di Cassieri, il cui connotato saliente è una struttura armonica in cui si inseriscono problematiche morali di vasta portata .
Anche Kundera, di recente, nel Sipario evidenziava che nel mondo moderno, abbandonato dalla filosofia, frazionato in centinaia di specializzazioni scientifiche, il romanzo è ormai l’ultimo osservatorio dal quale si possa abbracciare la vita umana nel suo insieme.
Le questioni poste a base del romanzo coinvolgono ogni lettore in relazione ai suoi tre stadi di vita; e cioè, prima della fase di vita autonoma (non ancora), durante la stessa (già nato) e dopo (non più).
Tra le fasi di vita vi è analogia all’interno di un etica della disponibilità dei confini della vita umana, la nascita come la fine è affidata integralmente alla responsabilità morale del soggetto: così come non è disponibile la fine della vita umana non è disponibile la nascita.
La variabilità nel tempo dell’approccio a questi temi è certamente uno specchio della società nel suo storico divenire e tutti siamo, grazie all’agile stile narrativo di Cassieri, provocati a riflettere sull’innovarsi della fenomenologia sociale.
Cassieri con stile luminoso ed elegante offre momenti di autentico godimento grazie ad un narrare piacevole e coinvolgente ma al lettore attento, desideroso di leggere tra le righe offre anche un senso, pone quesiti sul significato dei due opposti contenuti della formula “dignità umana”: pro choice o pro life, ossia è necessario assicurare al soggetto il massimo grado di libertà e decisionalità su tutte le questioni che lo riguardano dalla nascita alla morte, oppure non esiste solo un diritto ma anche un dovere alla vita, in quanto il vivere è un valore in sé, indipendentemente dal grado di benessere che lo accompagna.
Il fratello del professor Giannutri, l’ex moglie, sono esempi tipici di individui concentrati ad attuare scelte che consentano di una migliore qualità della vita affinché la stessa meriti di essere vissuta.
Grazie a “Free Exit” e all’intelligenza del proprio cuore, Nazzario Giannutri raggiunge un’accettazione forte, lucida, consapevole del proprio dovere di vivere guardando all’inevitabile fine con espressione di positiva e serena accoglienza.
Si cela qualche voce suadente, dietro queste scelte? Il ricordo di ciò che è stato o avrebbe potuto essere? Certo è che la speranza è più forte di ogni concretezza . Viene prima della fede, prima dell’amore e prima della carità almeno per Giannutri è così!