Ma c'è anche l'homo insipiens?, di Sergio D'Amaro
Homo sapiens sapiens. Quante volte, fermandosi allo specchio, l’umanità che va fiera della sua notoria razionalità ha trovato di che ridire o di che ridere di porri e verruche aggiuntisi inverecondi alle cere abbondanti della sua cosmesi? Forse che quel doppio sapiens ha l’ufficio di una rassicurazione, di un puntello fortificante a pro della facciata che minaccia vergognose cascate? Il dubbio assale ogniqualvolta si intercetta uno specchio deformante, in grado cioè di rinviare un’immagine più decentemente realistica di umanità.
Menti contorte, miti sdrucciolevoli, tic ineffabili, ideali fumosi appartenenti in particolare alla specie italica, stanno da parecchio tempo sul tavolo anatomopatologico di Giuseppe Cassieri, uno dei pochi scrittori capaci di agguantare fioretti satirici e umoristici e rivoltare tende e tendine dello zoo antropologico di cui facciamo bellamente parte. Troppo lunga la galleria dei tipi, delle maschere, dei personaggi che finora Cassieri ha messo sotto la lente d’ingrandimento. Sta di fatto che anche quando lascia il romanzo e viene alla misura breve del racconto, come in queste Scommesse, sa cogliere la realtà italiana nella sua millimetrica complessità, mettendone a nudo le cozzanti disarmonie, le brucianti contraddizioni, la non rara disumanizzazione della sua intrinseca, fatale modernità.
I racconti sono tredici. Il primo, eponimo, e l’ultimo (“Italo canto 1970”) sono impostati sulla finzione diaristica come a fornire il metronomo di una situazione cadenzata o la cornice di due ritratti più compiuti. Tutti insieme formano una nuova «commedia», continuano la vecchia commedia di un’umanità volta a volta frastornata, ambigua, eccessiva, disperata, illusa. Le maschere e i personaggi di Cassieri si muovono teatralmente, incarnano conati di un copione impossibile o capovolgo. Come succede al pensionato (col «pen» di penitente) Francesco Gabrieli, protagonista del primo racconto, paralizzato – e la paralisi qui va intesa anche in senso proprio, vista la badante addetta a risuscitare una mano inerte – dal «pensionismo» e armeggiante una biro Staedtler a caccia di obiettivi esistenziali, ovvero come dare senso a una vita che non ce l’ha, come credersi vincitore di qualcosa, quando sai che è la morte che ti vincerà e i nipoti sopravvissuti al giusto trapasso del vecchietto si spartiranno, c’è da scommetterlo, la proprietà faticosamente acquisita. Il dio greco che alberga sorridente in Cassieri sapientemente ci guida alla follia. Come quella che volteggia tra i lustrini ormai quasi tutti Tv del successo canzonettistico, targato Sanremo o Castrocaro, tema degustato con molto compiacimento (e lieta ironia pop) in “Italo canto 1970”. Esempi eclatanti di assoluta godibilità borderline, che ritornano più blandi e brevilinei nei restanti pezzi d’autore: per inventariarne qualcuno e anticiparli al palato pepato di lettori robusti basti rinviare a “Il frutto interdetto” (storia di una pantagruelica scorpacciata di fichidindia finita in drammatico arresto intestinale), “Le cavallette” (esorcismo di biblici terrori), “L’uomo dal proverbio in bocca” (pirandellianamente ispirato al pensiero etnico-meridiano), “I formaggi del profeta” (ritratto di un italoamericano in improbabili vesti mormoniche). La scommessa la vince l’autore, instancabilmente vigile al capezzale dei suoi donchisciotte.