Giuseppe D’Alessandro, L’autostrada

01-07-2009
La labilità dell’esistere, di Paolo Testone

I risultati più significativi ed emblematici di un itinerario quarantennale di poesia, da Mare lungo (1967) sino agli inediti di Un piccolo cielo azzurro (2008), sono raccolti in questa preziosa antologia dell’opera in versi di Giuseppe D’Alessandro. Nato in Puglia a Rutigliano, D’Alessandro vive a Roma dal 1956, dove esercita la professione di medico dedicandosi, contemporaneamente, alla produzione poetica, per la quale ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti già a partire dal 1965, con il Premio Vann’Antò, assegnato da una giuria che comprendeva Carlo Bo, Giacomo Debenedetti, Giorgio Caproni, Salvatore Pugliatti e Salvatore Quasimodo. Si tratta di un poeta che ha saputo esprimere con accenti originali, per esempio nei versi della celebre Autostrada, la svolta antropologa e culturale prodotta dal neocapitalismo degli anni Sessanta: «Siamo / proglottidi di luci / bagliori lucori / sigari lunghi di luce / che si consumano nella notte / e su ogni targa / di cartone di plastica / di stagnola / ognuno porta / lo stop di vetro / rosso come una ferita».
Sin dalla prima raccolta antologizzata, si profila una peculiarità espressiva che, come asserisce nel saggio introduttivo Walter Pedullà, consiste, più che nelle forme (sostanzialmente di derivazione classica), nei connotati umani, nella capacità di dar voce a una sottile e impalpabile malinconia, connessa, ad esempio, alla labilità dell’esistere, in un contesto di forte suggestione metafisica: «L’orologio della torre / spacca a mezzo / e a quarti le ore. / A noi non rimangono / che i minuti. / I minuti / li prendono i bambini / per farne frecce e fionde. / A noi non rimangono / che secondi. / Pochi secondi per l’amore, / uno solo per la morte». In questo quadro il topos della sera con le sue venature di mestizia e di oblio si interseca con la ricerca dell’Altro, quale bisogno proprio del percorso umano: «Quando la sera viene / tirandosi dietro una campana / come un cane fedele / e giunge lentamente tra le case / ove l’ombra a gambe / divaricate dorme negli angoli. / Quando nessuno si ricorda / più delle facciate / di cattedrali grandi / come nuvole e lampade / sono ferme come tanti / impiccati io cerco / la tua malinconia / tu la mia». Versi di classica compostezza, come si nota, ma attraversati da una tensione che si evidenzia nei mercati enjambements o nella ricercata durezza di alcune scelte espressive e lessicali.
Nelle undici poesie per Lorenza, nel Tamburo di sabbia (1978), il dramma della morte viene fatto risuonare con echi di rara sobrietà e lapidaria concisione: «Precipita./ Lo vedo dai suoi occhi / che non guardano più fuori. / Dentro ci deve essere / qualcosa che l’attira: / la sua dimora lontana. / Mai una morte / fu più amara e sola». La morte, con la sua presenza oscura, si ripropone costantemente nell’opera di D’Alessandro, come rivelano questi versi dedicati al padre compresi in Venti di mare e di costa (1993): «Nel sonno / hai girato pagina, / e non ti sei accorto / che era l’ultima». A monte del registro cupo e del tenore malinconico di componimenti simili c’è il tema del tempo, già chiaramente evidenziato nei summenzionati versi dedicati all’orologio della torre: «Tempo, Dio mio, dammi tempo: / dammi ancora un po’ di tempo / per pensare, / per amare / per soffrire la vita / ancora un poco».
In Velocità di sedimentazione (2002) si impone un registro nostalgico, associato alla rievocazione dell’infanzia e dell’adolescenza, all’insegna di una ideale primavera della vita in cui campeggiano i «muretti a secco» e altri oggetti – ulivi mandorli persiane mare – che concorrono a formare un paesaggio ideale. Nel fiore dell’età domina l’esuberanza delle pulsioni vitali, ma il suo ricordo è velato dalla consapevolezza, acquisita in età maggiore, della caducità delle cose: «Il pensiero volava / come il vento, / come il vento, / e come il vento / sbatte le persiane / sbatteva forte il cuore / dentro il petto. / Così l’adolescenza / trascorreva il tempo / senza sapere / l’autunno e l’inverno». La percezione della finitezza e del fatale trascorrere delle cose, ossia di quella che il poeta chiama «impermanenza», tende verso un approdo religioso soprattutto nelle ultime raccolte: «Per noi che viviamo / l’esistenza nell’impermanenza / del tempo Tu sei / l’espansione dell’amore / che cerchiamo ogni giorno / da vivi. // Ho una sedia vicino al cuore / e ogni sera Ti aspetto».
Un’idea tradizionale e classica di poesia, quella che si palesa leggendo i versi di D’Alessandro, fondata su una sorta di poetica dell’abisso. Ci si riferisce all’abisso che si insinua tra soggetto e parola, evocato con versi che richiamano la poesia Amai di Umberto Saba, ma in una prospettiva che non si fonda sulla volontà di fare i conti con le profondità dell’inconscio esplorato dalla psicoanalisi, come nel caso del poeta triestino, bensì su una più generale considerazione della inadeguatezza della parola, i cui limiti possono essere colmati da uno slancio di amore. Grazie agli effetti epifanici di tale slancio accade che «Le parole fanno muovere / le mani e riempiono / il corpo di viole del pensiero».