Giuseppe Favati, Per esempio, con la coda dell'occhio

01-10-2005

Tra narcisismo e dono (sul nuovo romanzo di Favati), di Bruno Stagnitto


Una vicenda stralunata e paradossale, figure appiattite e sbilenche, una voce femminile in falsetto (con una maschile a farle il controcanto) che racconta le sue esperienze sessuali specchiandosi narcisisticamente nella scrittura (o forse, come vedremo, facendo dono di sé), una frase di Savater che nell’esergo suona ambiguamente quasi elogio della pornografia, un mimetismo spinto, teso a rivelare una realtà che è satira di se stessa.
Totò,la giovanissima protagonista (il nome maschile induce immediatamente al sorriso) del secondo romanzo di Giuseppe Favati, svolge attività volontaria di assistenza sessuale agli anziani e ai disabili. Offre il proprio corpo avvenente e le sue arti, ma non è una prostituta. Tutt’altro (attenzione: siamo nel 2010): è zelante, ma anche emotivamente coinvolta, inoltre i suoi intenti sono estranei agli interessi materiali. Sono “nobili”, solidaristici (anche se questi termini hanno un suono retorico dato il grottesco delle situazioni), così come quelli dell’associazione no-profit di cui fa parte, la quale, in quanto associazione assistenziale, riceve sostegni economici statali (non paga le tasse). Trae qualche vantaggio economico anche dall’attività di graffitara cittadina, poiché in questo futuro così lontano e così vicino il Potere ha riconosciuto la funzionalità sociale di certe attività un tempo ormai remoto disprezzate e perseguitate. Ma soprattutto è coinvolta in un’appassionata convivenza omo, da cui dipende sensualmente ed economicamente.
La vicenda è resa nota attraverso uno scambio di messaggi tra lei ed un uomo ancor giovane (Onorio: nome parlante), dai modi di vita precari quanto quelli della ragazza, anche se meno eclatanti. I due si raccontano come in un romanzo epistolare (lei con abbondanza di particolari sulla sua relazione omo), forse con lo scopo di incontrarsi, o forse solo per un perverso desiderio di scoprirsi alieni, in quanto esponenti di due sessualità in perenne conflitto, oggi poi (nel 2010) tendenzialmente indifferenti l’una all’altra. L’incontro che infine avviene fa precipitare la vicenda (ormai si è definito agli occhi della partner di Totò un tipo di tradimento il cui significato va oltre il rapporto tra le singole persone), ma soprattutto fa emergere il tema centrale del libro, mentre isola in una momentanea forzata solitudine la protagonista che d’ora in poi si narra dialogando con se stessa. Totò, abbandonata in un cassonetto dopo la nascita, (molte cose di lei ricordano il personaggio femminile del precedente romanzo di Favati) rende con particolare evidenza l’idea di una condizione esistenziale di deiezione senza senso. Eppure la sua propensione a domandarsi incondizionatamente sembra alimentare l’idea complementare del debito contratto, sia pure inconsapevolmente, nel momento in cui ha avuto in dono la vita. Questa impressione, che induce a pensare alla riflessione filosofica sul dono e più in particolare alla letteratura femminista sull’argomento, è rafforzata dal confronto tra Totò e gli altri personaggi non solo femminili e dal particolare contesto nel quale la sua storia è calata. So di star svolgendo riflessioni del tutto personali, comunque stimolate dalla lettura; e non potrebbe essere altrimenti dato che l’autore ha impiegato tutte le risorse dello stile per eclissarsi, facendo risuonare solo la voce stridula dei protagonisti, partecipi della generale “smemoria” storica e del diffuso appiattimento culturale e che filtrano attraverso la loro incerta consapevolezza (o ambigua inconsapevolezza) una vicenda improbabile nei suoi eccessi, anche se vera in quanto ipoteticamente possibile (se non oggi nei tempi che ci attendono). Voglio comunque richiamare l’attenzione sulla interessante impostazione linguistica. I personaggi parlano (scrivono) in un linguaggio scevro da remore o censure: una lingua “liberata”, come si sarebbe detto un tempo, ma che in fondo è solo parte di quella più generale libertà sessuale ambiguamente concessa dal Sistema. Una lingua scritta, proiezione immediata del parlato, che spesso trasforma le parole in gridi, sospiri, smorfie, gesti, emozioni e questo non nei modi di una comunicazione attraverso lettere che ci doni impressioni di lentezza e pacata riflessione, ma in quelli scorciati e vibranti di messaggi “trasmessi” (elettronicamente, si deve arguire). Un linguaggio del desiderio e, nello stesso tempo, del reciproco sospetto. Scrivere è però, in qualsiasi modo lo si debba immaginare, inevitabilmente anche il luogo e il momento dell’incontro con il sé, intrecciato al bisogno di inganno e di autoinganno. E quel linguaggio di cui si è detto richiede un’inesausta capacità d’invenzione. Da quale misteriosa profondità sgorgano certe intuizioni? Così, per fare un esempio, Totò inventa, tra i tanti, un termine misto di tenerezza e di sarcasmo (“monscerino” alternato a “moscerino”) per rivolgersi all’amico-nemico.
Il romanzo di Favati è ambientato, come si è detto, nel 2010, un tempo lontano da noi quanto basta per immaginare un Altrove da cui guardare con occhi straniati al nostro Presente. È un tempo vicino e lontano, configurato cogliendo e portando a compimento alcune tendenze dell’Oggi facilmente riconoscibili (basta saper guardare con la coda dell’occhio). Lo sfondo è quello di un mondo globalizzato e normalizzato, un Sistema, come si può intuire, dove tutto si tiene in perfetto equilibrio. Un mondo in apparenza sterilizzato e funzionale al mantenimento della quiete sociale. Un occhio indiscreto ci conduce però ad osservare l’inosservabile,il versante della vita quotidiana, un tempo la Vita, ora risvolto inessenziale del funzionamento dei meccanismi macroeconomici. Una vita quotidiana del tutto disgregata, dominata dalla precarietà e dalla violenza immotivata, popolata di ombre (nel senso della caverna di Platone): esseri marginali e solitari, quindi stranieri per costituzione, che accettano narcisisticamente la loro inessenzialità e si realizzano (realizzano con una sorta di comica voracità la loro imperfezione) esclusivamente nell’attività sessuale di ogni tipo (di gruppo, voyeuristiche, sadomaso, incestuose) ritratti con minuto realismo (fino all’effetto trompe-l’œil), con una costante sarcastica violazione dei limiti, ma che colpiscono soprattutto per il fatto che tali attività paiono essere le uniche a tendere (sia pure in modo fallimentare) alla fine della condizione narcisistica di solitudine, alla riscoperta dell’altro e alla riconquista di una qualche forma di socievolezza. Un mondo, inoltre, ove si è consumata da tempo la decadenza del maschio: non ingannino i deliri di onnipotenza di alcuni, le violenze gratuite di altri. Onorio è ormai dimentico della “vittoria apollinea di Oreste” (Eschilo, Eumenidi) e se ne sta rinchiuso nel bozzolo del suo vittimismo, lasciando che siano le donne ad esercitare le virtù competitive. Ma anche le donne sembrano estenuare il loro attivismo in uno sterile e troppo soddisfatto culto di se stesse tale da rendere il loro matriarcato pieno di falle e farlo apparire una brutta copia del precedente dominio maschile. Questo allora non permette alla Vita di “emanciparsi dalla natura” (per esprimerci nei termini filosofici del dibattito accennato) e l’umanità non sa più volgere le spalle alla caverna e andare verso la luce. Si genera con il corpo (e alla fine Totò, incinta di un ragazzo down, cercherà proprio Onorio per attribuire a lui la paternità), ma nessuno più “genera attraverso l’anima”.
Comunque Totò sembra, anche se oscuramente e solo in certi momenti, rappresentare un’alternativa, un’autentica futuribile alternativa femminile. Quello che fa diversa dalle altre questa figura e quindi la rende paradossale fino alla inverosimiglianza, è la sua disposizione al dono. Donare se stessa non nel senso di un generico altruismo, ma nel senso di riconoscere nell’esistenza dell’altro il simbolo della propria incompiutezza. L’altro allora non è più l’estraneo da dominare e piegare al soddisfacimento degli impulsi naturali, ma colui che dona ricchezza, attraverso il vincolo sociale, ad un’esistenza individuale altrimenti povera e sterile, il suscitatore della speranza, e via via della gamma di sentimenti con i quali si è soliti definire umana la vita dei viventi. Può essere un ragazzo down “dagli occhi incredibili” o, come avviene nell’ultima parte del libro, può essere una ragazza che “sembra uscita da un bagno di cioccolata”, può essere una meticcia.