Giuseppe Favati, Per esempio, con la coda dell’occhio

01-01-2006

Dagli ilari inferni, di Franco Manescalchi


Scrivendo di un mondo minacciato da una perdita di senso dove tutto sembra somigliare al suo contrario e niente più a se stesso, Giuseppe Favati in Per esempio, con la coda dell’occhio fa nascere il suo discorso dagli inferi quotidiani, focalizza la ricerca nell’ambito di una sessualità “estrema” proliferante da un’overdose di reality e, in qualche modo, virtuale come in una “mise en espace”. Così l’autore pone in evidenza, di pagina in pagina con cogente gusto espressionistico, il paradosso di un prossimo futuro dove tutto accade come in un girone dantesco. E vi si mette in gioco. Infatti affida a Onorio, coprotagonista coinvolto in questi inferi di una storia eroico-lesbica che pare liberante, la funzione di assumere su di sé il senso della sconfitta del maschio.
Ma direi di più, la soluzione per dissoluzione del senso tramite un racconto caustico e priapesco che non intreccia personaggi ma “figure di scena” è anche un’allegoria felliniana che muove nevralgicamente da Onorio medesimo. Dunque la sua sconfitta più che derivare da una guerra fra i sessi potrebbe essere interpretata come sconfinamento edipico in un universo in cui l’eventuale si fa evento speculare nell’altro da sé; ed allora la drammaturgia di un’estrema lucidità sessuale può coincidere con l’estrinsecazione del subconscio nell’io in una sorta di “stagione all’inferno” in qualche modo rivelatrice di un autodafé. In effetti Favati è autore anche di teatro e già,in altre opere, ha messo a nudo l’ambiguità della vita di coppia con una induzione flaubertiana fondata sull’asserto: “Madame Bovary c’est moi”.
Con tutto ciò, il fatto che Favati collochi questi eventi in un futuro prossimo, non esclude che, “con la coda dell’occhio”, voglia rivolgere una satira al vetriolo al presente non tanto per fustigare i costumi quanto per liberare sentimenti in questa sua favola capovolta, questi suoi ilari inferi che sembrano sottendere una risata amara e sardonica, memore forse del sitire bibendo che lucrezianamente segna l’uomo in una sorta di ricorrente contrappasso. Perciò l’autore non vuole solo mettere a fuoco la condizione del nostro tempo, o almeno non solo quella, ma piuttosto porre la questione peraltro da sempre irrisolta, della vita in quanto tale e nella sua nuda e cruda evidenza.
Parlerei allora, in riferimento a questa indagine quasi filologica della e sulla sessualità, di un “divertissement noire” volto se non altro a trasgredire sia l’ammiccante patinatura dei media che la medievale “pruderie” della conservazione. Non a caso nella nota editoriale si parla di “un eros dilagante e irridente unito ad un gusto satirico sulfureo e ad un grande impegno sociale dove gli ingredienti […] muovono le fila di una storia forte e coinvolgente”.
Una storia obliqua, “ripresa”, così, en passant, Per esempio, con la coda dell’occhio, come un viaggiatore settecentesco che “illumina” un girone del tempo registrandolo impietosamente, esibendo il voyeurismo di una società dove il virtuale ed il triviale finiscono col coincidere.
Ancora, se, con riferimento al Settecento, “Essere filosofi significava essere libertini” (come ci ricorda l’autore citando Fernando Savater), a maggior ragione oggi scrivere un pamphlet narrativo sulla sessualità significa, naturalmente, parlare d’altro, con la consapevolezza di un tentativo prometeico di una partita tutta da giocare verso una meta il cui nome, per scaramanzia, si evita rigorosamente di porre sugli scudi, come invece avviene nelle catarsi letterarie in sedicesimo.