Vi racconto la mia classe scomparsa
Certe pagine sembrano quasi scriversi da sole. Tu accendi il computer, metti le prime parole, qualche virgola qua e là poi ti alzi e vai a immergerti nella vita, nelle cose usuali della giornata. Quando infine torni, la sera o la mattina dopo, trovi il foglio completo di tutto quel che fondamentalmente serve, senza che tu ne abbia alcun merito. Un po’ come un prodigio.
Così è capitato anche a me per la nascita dei racconti de “La classe scomparsa”.
Ho passato la mia vita professionale attorno a un altro tipo di scrittura, quello per la televisione. So che scrivere una sceneggiatura, fare un copione, redigere un dialogo o una scaletta per un programma della tv, sia essa buona o meno buona, è frutto di lavoro collettivo, di forme costituite (il format!), di strategie e furbizie, insomma di mestiere. Questi racconti, invece, sono nati di getto, irresponsabilmente. Non è che non serva il lavoro. Spesso le pagine vengon fuori grossolane e ci vuole limatura e lucidatura. Ma le ho scritte senza un progetto. Andando a ruota libera, in discesa.
In fondo scrivere non è la cosa più difficile. La vera impresa è conquistare, e poi giorno per giorno mantenere, uno sguardo aperto sul mondo. Se qualcuno te lo insegna, il più è fatto. Guardando fuori, attenti a quel che accade, quasi da sé nascono le parole.
La classe scomparsaNon solo: una volta raccolti insieme mi sono accorto che un filo rosso legava tutti i miei racconti. L’ho scoperto dopo: questo filo è l’inesorabile presenza dell’imprevisto. Ogni racconto ne è in fondo una declinazione, con toni e temi diversi. Non era voluto, né programmato. E’ stata una sorpresa, un altro inaspettato.
Montale ha scritto che l’imprevisto è la sola speranza.
Pensiamo di essere padroni delle cose che possediamo, delle persone che ci circondano, della nostra stessa vita. Ma non è così. E l’imprevisto, quello della banalità dei contrattempi quotidiani, ma più profondamente quello che accade nei momenti chiave dell’esistenza, è come uno schiaffo che ci ricorda cosa veramente siamo.
In questi miei – se posso dire così – racconti, che sia lieto o strano, paradossale o persino doloroso, l’imprevisto è sempre amico. Al modo in cui anche un amico arriva sempre inaspettato.
Un estratto dal libro
Germinario entrò nell’Istituto alle otto in punto. La porta d’ingresso era spalancata. Percorse il corridoio lucido senza incontrare anima viva, ma aveva la sensazione che qualcuno lo spiasse di nascosto. Bussò alla porta di vetro della segreteria.
«C’è nessuno?»
Sbirciò dentro. Era in ordine perfetto. Sulle scrivanie né un fascicolo, né un registro, neppure un foglio. Da quel che poteva vedere, non c’era nessun computer, ma sopra un pesante armadio di legno notò una calcolatrice meccanica, a manovella.
«C’è nessuno?» Tamburellò con le dita sullo stipite. Tutto era strano. Tornò indietro. Pensò che forse era arrivato troppo presto. Si fermò davanti a un busto di marmo, in mezzo all’ingresso. La targa d’ottone recitava: “Conte Ottaviano – Fondatore – 1917”. Che idea fare una scuola nel bel mezzo di una guerra… Una finestra si apriva sul giardino interno, curatissimo e lindo. Guardò il corridoio e gli sembrò vi echeggiassero ancora i suoi passi.
«Ah, eccola, finalmente! Benvenuto!»
Germinario si voltò e nella penombra vide avvicinarsi una figura enorme, alta e robusta.
«Buongiorno!»
Venendo alla luce l’uomo gli tese la mano. Aveva polsi pelosi che spuntavano dalla veste nera, il volto abbronzato, occhiali al collo, capelli cortissimi. Era un prete.
«Buongiorno» rispose «sono Germinario, l’ispettore scolastico mandato dalla Fondazione.»
«Sì, lo immaginavo, benvenuto.» «Lei è il Preside?»
«Oh no, no, per fortuna no, lui sarà qui a momenti, intanto venga, l’accompagno.»
Padre Albino lo aveva condotto nella sala professori. Germinario non sapeva se irritarsi oppure no per quel ritardo del Preside, se considerarlo una mancanza di rispetto. Si guardò intorno. Era uno stanzone luminoso e vuoto, con un grosso tavolo di legno massiccio. Sopra, in bella vista, quello che sembrava un pacco di documenti preparato apposta per lui.
«Sono…» «Sì…» «Posso?» «Sì…» Afferrò il plico. Erano fogli di varie dimensioni, alcuni stropicciati, altri macchiati, tutti battuti a macchina, ma con caratteri diversi. La maggior parte sembrava uscita da vecchie macchine da scrivere a nastro, in blu o in nero. In testa a ciascuno un titolo. Padre Albino lo osservava, quasi a volerlo controllare. Ma l’ispettore lo gelò con uno sguardo e così il prete uscì, chiudendosi la porta dietro. Allora Germinario si tolse la giacca, si sedette al tavolo, inforcò gli occhiali e cominciò a leggere.
La stanza
C’è una stanza in più nella mia casa. Abitiamo lì da dieci anni, ma non lo sapevamo. Che ne dite, è o non è una piacevole sorpresa? La certezza è di stasera: il nostro corridoio corre a fianco della sala e della cameretta dei bambini, ma le misure non corrispondono: il corridoio è più lungo di due metri. Perciò è facile dedurre che tra le due camere ci sia una stanza nascosta, come in un doppiofondo. Dopo cena, tutti eccitati, abbiamo fatto un piccolo foro nella parete della sala. Maurizio, mio figlio più grande, ha infilato la mano nel buco. La stanza c’è, inequivocabilmente. Giovanna, mia moglie, voleva sfondare subito il muro, ma io ho rinviato tutto a domani mattina. Ce la dobbiamo gustare questa scoperta. La stanza in più è proprio quello che ci serve. Potrò farne la cameretta di Fabio, che ora è costretto a dormire su un letto a castello con Maurizio. Ne ha bisogno di uno spazio tutto suo. Fabio e Maurizio sono contenti. Giovanna però dice che vorrebbe un disimpegno per i lavori domestici e non ha tutti i torti. La nostra casa attuale è così piccola che la roba da stirare è sempre in giro dappertutto. Ecco, ve la mostro, venite con me. Qui c’è l’ingresso con il corridoio, non fate caso alla porta un po’ rovinata, i ladri hanno tentato di entrare lo scorso Natale. A sinistra, questa porta aperta…
Maledizione ragazzi, quante volte vi devo dire di chiudere la porta del bagno…! Ragazzi dico a voi…!
Questa porta dicevo è il nostro bagnetto. La doccia non c’è. Là in fondo la nostra camera da letto e il cucinino…
Ciao Giovanna, questi sono lettori, miei amici, sono venuti per vedere la stanza in più… no non ti disturbare (prepara la minestra).
A destra, dall’altra parte del corridoio la cameretta di Maurizio e Fabio.
Salutate! «Buonasera, buonasera.» E là in fondo la sala, coi divani nuovi. Ed ecco il nostro muro, vedete? Provate anche voi a misurare il corridoio, sono nove passi, e invece la sala sono solo quattro e la cameretta tre… Questo è il buco che abbiamo fatto e domani lo allargheremo fino a buttare giù tutta la parete.
Maurizio è arrivato con una pila e vorrebbe guardare dentro, ma non si vede niente, ci deve essere qualcosa di legno davanti. La curiosità è tanta. Fabio dice che forse dentro c’è roba di valore. Potrebbe essere, perché no? Magari è una stanza fatta proprio per nascondere un tesoro, o una grossa refurtiva. La cosa ci eccita. Tutto quello che possiamo trovare lì dentro è incontestabilmente nostro, e comunque, fosse anche un vecchio letto scassato, è regalato. È fantastico scoprire all’improvviso qualcosa che non sapevi di avere. Come quando in una giacca rimessa trovi dei soldi lasciati lì dalla stagione passata. Abbiamo passato mezz’ora a immaginare cosa potrebbe saltare fuori: monete d’oro, vasi antichi, pietre preziose.
«E se ci fosse un cadavere?»
Giovanna ha sempre la capacità di raggelare tutti. In effetti potrebbe anche essere, abbiamo sentito di altri casi di “lupara bianca”. Potremmo trovare un cadavere decomposto, un teschio, uno scheletro, forse più di uno. Ho fatto bene a rimandare tutto a domani. Fabietto potrebbe impressionarsi. Intanto si è già preoccupato, dice che ha paura di quello che potrebbe esserci e che non vuole dormire in casa stanotte. Maledizione a Giovanna e alle sue uscite. Anche Maurizio è impallidito. Io gli dico che non c’è niente da aver paura, ma loro hanno visto troppa televisione con quei film di mostri e fantasmi che sbucano da tutte le parti. E adesso Giovanna si è fatta proprio suggestionare e dice di aver sentito anche un colpo provenire da dietro la parete. Non è possibile, dico io, ti sarai sbagliata. Ma lei insiste. Tra l’altro non c’è bisogno proprio di pensare a qualcosa di umano. Potrebbe trattarsi di una tana di bestie. Sì, questo è probabile: un nido di insetti, o di rettili, o di topi. Certo se fosse così sarebbe spaventoso, avrebbero potuto crescere e moltiplicarsi indisturbati, proprio lì vicino a noi, dietro le nostre teste (perché quando ci sediamo sui divani – ecco vedete, così, sediamoci pure – siamo proprio a contatto con quel muro). Magari la stanza è un infernale ammasso brulicante di bestiacce. Oppure di bestia ce n’è una sola, feroce, forte, orrenda, che occupa col suo volume tutta la stanza e che adesso potrebbe essersi risvegliata. Siamo stati in silenzio per un po’, con l’orecchio teso. Poi Giovanna ha detto:
«Perché non richiudiamo quel buco e non torniamo a stare come eravamo prima? La casa è piccola, è vero, ma se ci è andata bene fino ad ora, perché cambiare?»
Devo dire che non sento molto il fascino dell’ignoto, o il richiamo della avventura. Sono un autista di autobus e la mia vita mi piace così, non la cambierei. E fosse per me quindi farei come ha detto Giovanna. Ma il fatto è che non si può più tornare indietro. Come potremmo vivere in pace ora che sappiamo di quella stanza e del suo misterioso contenuto?
I ragazzi, infine, si sono addormentati, ma nella nostra camera. Io e Giovanna siamo rimasti in sala fino alle tre a guardare il buco, un po’ sedotti, un po’ spaventati. Poi siamo crollati in un sonno inquieto anche noi, sui divani nuovi.
Quando la mattina presto abbiamo finito di buttare giù il muro (e come avrebbe potuto essere altrimenti? La luce dell’alba ha fugato le nostre paure e in preda ad una furia strana abbiamo sfondato la parete in un baleno), quando la polvere delle macerie si è posata e ci ha permesso di intravedere al di là, quando abbiamo scavalcato il mucchio di calcinacci…
Questo abbiamo trovato: non una piccola stanza di due metri appena, ma un vasto salone, vuoto, luminoso, immerso in una luce diafana. I muri bianchi, perfetti, il pavimento di legno chiaro. In centro una colonna, al fondo una grande fine- stra. Siamo entrati circospetti. Prima io, poi i ragazzi, poi Giovanna. Ci sembrava un sogno. Eravamo confusi e assaliti da mille domande:
«Dove mai si affaccia quella finestra, possibile che non ce ne siamo mai accorti da fuori?»
(A pensarci però non abbiamo mai guardato bene bene la facciata della casa.)
«Ma come può stare tutto quello spazio tra la nostra sala e la cameretta?»
In verità niente ci appariva sicuro. Anche quella piccola differenza nel corridoio, forse non era poi così piccola, forse era più grande, dieci, venti metri che mancavano alla geometria delle stanze.
Ma non era finita. Ci siamo voltati e Maurizio era sparito. Giovanna allora ha visto un’altra stanza comunicante con quella in cui eravamo. E siamo entrati anche lì, seguendo Maurizio. E da quella in un’altra e un’altra ancora, sempre più in là, stanze sempre più grandi, sempre più luminose. Tutte diverse, l’una con soffitti altissimi, l’altra con lucidi marmi alle pareti, l’altra con grandi vetrate multicolori. Le nostre voci si sono confuse nell’eco di quegli spazi vuoti. Le nostre figu- re si sono perse di vista, rimpicciolite dalle distanze. I nostri occhi si sono chiusi per l’accecante bagliore delle finestre e dei lucernai. I nostri sensi ci hanno tradito per la vertigine di quel grande orizzonte. Quasi un infinito.
A sera, quando la luce riflessa dai muri bianchissimi si è fatta tenue e dorata, siamo riusciti a tornare alla nostra piccola sala, coi divani nuovi. Sfiniti, come ubriachi, abbiamo messo la libreria davanti alla apertura sul muro e abbiamo tappato quasi tutto.
Oggi ce l’abbiamo, sì, quello spazio in più, ma non lo abitiamo, è troppo vasto, non lo possiamo abitare. Ci andiamo e ritorniamo, come in escursione, sempre scoprendo nuove cose.
Abbiamo deciso di non dire niente a nessuno. Quello sarà il nostro grande segreto, che ci farà sorridere quando le zie, venendo in visita a prendere il tè, diranno che sarebbe ora di pensare ad una casa più dignitosa, a misura d’uomo.