Giuseppe Minonne, Racconti in disordine

22-02-2008

Il letterato, i ricordi e i dettagli dell'esistenza, di Claudia Presicce

Letteratura è cosa a sé, è scrittura che resta, con un valore assoluto. Letterari sono racconti impegnati, dove impegno sta per quella cura che ostacola ogni sciatteria, anche quella di una genialità artistica impulsiva che giustifica spesso l’eventuale imperfezione stilistica o contenutistica.
I Racconti in disordine di Giuseppe Minonne sono, in questo senso, letterari. Intanto perché sono curati nei dettagli lessicali che fanno la differenza rispetto ad altre scritture più veloci e superficiali. Poi perché danno garanzie. La prima è quella di un supporto solido di letture “letterarie” dietro, che si sente, affiora via via tra le righe, la cui prepotenza l’autore non riesce a tenere a bada.
Poi ce n’è un’altra garanzia, altrettanto forte, quella di un vissuto, lungo e profondo, che giustifica anche la visionarietà in taluni tratti, ma dà sicurezza quando si raccontano cose reali.
La pianta recisa e lasciata in un angolo di una stanza che attende il padrone di casa al ritorno da un lungo ricovero con una foglia nuova, non è un’immagine inventata: è reale. È frutto di un vissuto in cui certe piccole cose si notano e diventano anche più grandi del loro significato effettivo.
In quei casi la memoria si fa valore: una sedia imbottita, ritrovata tra i mobili di un antiquario, sulla
quale una madre un tempo sedeva parla di un legame incorruttibile dal tempo. È un ricordo che
spiazza perché sa di vero.
Come reali sono i ritratti dei personaggi che occupano le corsie di un ospedale che Minonne
analizza nel racconto Stanza numero 14. In quel luogo, dove riemergono gli aspetti più archetipati
dell’uomo, le donne hanno i gesti di antiche geishe verso i mariti degenti e la loro maggiore o
minore solerzia e sollecitudine le rende esseri più o meno dignitosi agli occhi degli altri ricoverati.
Perché in un ospedale i parametri non sono gli stessi che fuori da lì. Non conta più chi ha successo nella vita e chi no, chi lavora fuori o dentro casa, chi ha i vestiti firmati e chi non li ha, chi ha un aspetto migliore e chi non ce l’ha.
Quel luogo dove si guarda in faccia senza i pudori e le altezzosità del palcoscenico quotidiano allestito con tanto di scenografia sulle nostre strade è raccontato in modo autentico in tutti i suoi contorni. Tutti numeri lì dentro, più o meno fastidiosi dei nostri vicini di stanza, casi umani più o meno impegnativi per il lavoro di medici e infermieri. Minonne racconta con sapienza il buio che il crepitio dei parenti che si dissolve la sera dopo l’orario di visita si lascia dietro.
Così racconta con verosimiglianza anche di quotidiani fallimenti, di emarginazioni, di incontri con altri esseri viventi: la falena che si poggia sullo schermo, il piccione che bussa all’uscio, il grillo che non lascia tregua al sonno.
Poi ancora dolori e sentimenti, ricordi, paure e sconfitte, piccole e grandi sfide che rendono la vita di ognuno diversa dall’altra, che fanno sentire uniche e orgogliose le coscienze di tutti, che danno quella pienezza interiore a ciascun uomo per farlo alzare la mattina e dargli la voglia di recitare la sua parte su questa terra. Ognuno di noi si sente diverso, anche migliore di altri. In realtà c’è posto per ogni diversità, perché ognuno “serve” ai suoi vicini di vita per completare quel quadro intorno di cui chissà se davvero un giorno capiremo il senso.
Così I tre esiliati personaggi usciti dai canoni classici prestabiliti dalla società “servono” da monito agli altri che hanno invece seguito i loro ruoli. Sono quelli che si possono guardare con disprezzo sentendosi forti nelle proprie spalle conformiste coperte da famiglie, soldi, successo. Fa niente se poi magari sono solo tre sinonimi di ipocrisia e se testimoniano il tradimento di sé.