I versi raffinati di Rosato in una dolorosa "sinfonia", di Giuseppe D'Alessandro
Versi raffinati quelli contenuti nell’ultima opera poetica di Giuseppe Rosato, Di questa storia che declina. Ma è una “sinfonia” dolorosa, quella che si ascolta; una “sinfonia” la cui cifra si avvicina ai ferrigni grumi di accordi che aprono La sagra della primavera di Igor Stravinskij, forti, duri, impietosi, come a dire che –nella sperduta società di oggi– ogni speranza deve cedere il passo alla constatazione delle disillusioni che vengono dalla realtà; che l’azzurro del cielo è stato soverchiato da un eclisse di sole senza fine; che ciò che un tempo fu bello, e amato, dev’essere ora scordato, per non soffrire troppo, per negarsi al rimpianto.
Nutrita di echi montaliani, poundiani, eliottiani; intrisa di pessimismo leopardiano; gnomica, nel suo cosmico minimalismo, come solo la poesia di Orazio o, tra i contemporanei, dell’amato Saba, cui è dedicata la citazione iniziale, sa essere, quest’ultima fatica di Giuseppe Rosato reca la conferma la conferma della grandezza di una voce, della ricchezza di una frase poetica, del valore di tutta una produzione.
Sarebbe da aggiungere un sommesso invito: di non esiliare il tema della gioia, di aprirsi ogni tanto anche al sorriso, di dedicare ad esso parole e accenti, come ha fatto brillantemente in passato perché “Qualcosa resta dell’amore” –lo dice anche l’autore– “sebbene rintracciabile appena / nel fotogramma di un bambino ignaro / tanto che può sorridere”.
E se dunque il bambino sorride, in fondo, non è giusto che la maturità, la coscienza, gli anni si impadroniscano della sua gioia, annullandola. Proprio la poesia è l’antidoto vincente per i veleni dell’esistenza e il più mitridatizzato è il poeta, sotto un certo punto di vista: perché egli genera la poesia, linfa che risale dal profondo –contro la piena avversa della vita, direbbe Montale– per prorompere cristallina alla luce del sole, immemore di ogni percorso oscuro, fatto nelle viscere della terra.