Giuseppe Rosato, Di questa storia che declina

11-09-2005

Così tragico e futile, di Sergio D'Amaro


L’ultimo messaggio poetico di Giuseppe Rosato è di severa, essenziale brevità, quasi una riflessione, una ruminazione in punta di disperazione (o esasperazione). Da Rosato, mai pago di ironici pasti, non ci saremmo aspettati un’opera così assertiva, così marcatamente insistita sul mondo che non va.
È un animus che sa chiaramente di Dante, di Foscolo, di Leopardi, di Montale (da cui infatti sono prese alcune mosse famose), e che si estende compatto a denunciare la difficile situazione di questi primi anni del terzo millennio. Rosato si sente catapultato alla fine di un altro Impero Romano, con i marmi, gli specchi, gli stucchi dell’edificio che cadono rovinosamente a terra. Basterebbe già il primo testo, quello che comincia con «Ma te n’avvedi, Italia, di che sogni/ ti sei disfatta, di che canti,/ di che virtù minuscole ecc.» a comunicare tangibilmente la rabbia civile di cui il poeta si fa giusto portatore.
E insieme alla rabbia, la preoccupazione per tanto sangue innocente, per la tragedia dei profughi e dei nuovi immigrati, per tante guerre ignorate e pure ugualmente feroci.
E lì i versi di Rosato a battere su questo, a domandarsi dov’è finito Dio o il suo successore, da quale pigrizia o disinteresse o improvvisa crudeltà è stato preso: «“Tanto per far qualcosa, ma che cosa/ ho poi fatto?”, dovrebbe essersi detto/ il Creatore - se mai ce ne sia uno -/ guardando questo suo creato. “Meglio/ sarebbe stato vincere la noia/ inventando altra cosa”. Ma il fatto/ era fatto e non c’era altro da fare/ che aspettare se da sé/ prima o poi si facesse disfatto».
Tragedia e futilità. La futilità arriva soprattutto dagli schermi televisivi e coinvolge potenti e ballerine, divi e cuochi. La TV come rappresentazione spettacolare della decadenza dello spirito etico, soprattutto della «parola», svuotata dalla sua «verbalità» e fatta segno osceno o mostruoso di banalità.
La dose di pessimismo di Rosato vira decisamente al nero nella seconda parte del libro, dov’è detto che «Uno e fermo/ il tempo della tenebra, il numero/ invece cresce degli ottenebrati». Non si vedono luci o lumi in questo buio, o si intravede un fotogramma di bambino e niente più. Se la memoria si accende, se la ragione s’illumina, ecco che questo mondo descritto da Rosato ineluttabilmente si oscura e scaccia ogni speranza.
Per un momento anche la poesia ha parlato, è stata memoria e ragione, alto sentimento e patimento. Dopo la caduta dell’Impero, ci chiediamo, ci sarà un altro Medio Evo?