Due viaggi dal nulla alla verità in nome del padre e della madre, di Francesco Durante
[...] Questo atto di lacerante superbia, di “ricreare il nulla” è del resto, si potrebbe dire, l’atto stesso dello scrivere. Nelle nuove poesie di Giuseppina De Rienzo lo ritroviamo per esempio applicato alla figura materna. Le poesie della De Rienzo sono il prodotto di una furia: non basta loro una qualsiasi forma (se non, talora, quella di qualche misterioso calligramma), non una misura; esse si gettano sulla pagina come un fiotto di vita, un lampo al magnesio che nell’urgenza della sintesi prende le parole e le scompone o le fonde, e insomma si mostrano con una loro forza visionaria: concreti fantasmi, li si direbbe, a partire da una costante che è quella di annettere un senso e una voce (di dare vita) proprio alle cose più umili, alle cose-cose, quelle che –sunt lacrimae rerum– meglio possono dirci la malinconica transitorietà del reale. Di queste poesie per la madre, che formano una delle cinque sezioni del libro, ricorderò alcuni versi da quella che più mi ha convinto e che dice: “ti indosso / ogni mattina / come un cappotto / e via // più largo / lungo / almeno due taglie / infilo a una a una / le braccia / nelle tue / accetto / la gonna a pieghe / il tuo passo / forte // anche la rabbia // soltanto gli occhi / restano dentro / ai miei…”.
Indossare una madre: rendere vivo e palpabile il suo ricordo come una traccia, un’usta, una pista sfuggente che soltanto una figlia può riconoscere senza possibilità di errore. Ricreare “la cosa più preziosa che ho”, per riscattarla amorevolmente dal nulla.