La vita a morsi dentro i versi della stregònia, di Francesco de Core
La poesia come emozione pura, ritorno alle origini della parola. E qui, nei versi scabri che rotolano gli uni sugli altri, le parole sono dense e fluide insieme, comunque uniche, taglienti come colpo di pennello netto. Giuseppina De Rienzo –nel suo ultimo lavoro poetico, Laggiù la stregònia- le mette in fila, le lascia in riga, le muove e le plasma come sequenza di cinema, ne adotta tutto il peso che esse portano nella storia personale, nei ritmi fluenti di vita, nelle pose del quotidiano. Parola come lacerazione, urlo e vendetta, pietra e piuma; parola che rimbalza dentro, nelle viscere e nell’anima tra un ricordo materno che muove a sogno e una presenza animale che ha umana corposità.
Laggiù la stregònia è dunque percorso, tragitto, esperienza e ferita: ha sangue di rivolta nella confessione che, al di là di ogni lucida passione e ragione, l’autrice ci fa vivere, in presa diretta. Come sussulto, aritmia a occhi chiusi e cuore aperto: “A me spettano pezzi / bocconi / coni d’ombra / zoomate scampoli / aria / vite a squarci”. L’esistenza è fatta di salti, ma va presa tutta, trangugiata nel segno della passione e della sofferenza: “Azzardo / inseguire le cose per intero / coglierle piene / bere / d’un fiato il dolore / così ho vissuto (non ho detto amato) / fino all’ultima goccia”.
Anche i rapporti vibrano di una intensità che la De Rienzo –mai come in questa raccolta (avendo già sperimentato anni fa la forza della poesia in Eri tu il cavallo)- cava, cerca, ripone nelle parole: “Meno male / hai lasciato gli occhi / nell’acqua / a sprazzi / posso vederli la mattina / vapori oltre la scogliera”. Gli affetti, i sentimenti sembrano condensati, eppure esposti mai velatamente. Anche l’effetto straniante della natura è specchio delle inquietudini. E irrompe la stregònia, pianta mediterranea, diffusa e spontanea: “Di qua / rosmarino / gallinetta comune / laggiù / acanto spinoso / lavanda selvatica / stregònia”. Come se proprio queste piante che sorgono nei posti più impervi potessero in qualche modo restituire sollievo a chi le guarda.
La natura rivela e si rivela. E i versi succhiano quella linfa. Napoletana di nascita, ma procidana per adozione e passione, la De Rienzo sembra cucire addosso all’isola –cui ha anche dedicato uno splendido libro fotografico- il senso che le è proprio, la lucida emozione e l’incanto mai domato, trovando il conforto del rifugio ma pure l’integrità di emozioni altrove rapprese, o comunque scolorite. Il libro è anche un viaggio tra corpi veri e artefatti (il manichino non è messo a caso in copertina) e nel fitto reticolo dei ricordi (struggenti sono i versi dedicati alla figura materna, la cui presenza è palpabile persino negli abiti dismessi). E c’è un filo rosso che collega la poesia alla prosa, la stregònia alla scirocca (protagonista dell’ultimo romanzo): la De Rienzo conferma così di saper toccare corde, in profondità, spesso inaccessibili.