Gladis Alicia Pereyra, il cammino e il pellegrino

27-02-2012

lettura e intervista, di Ilaria Giannini

Firenze, fine Duecento. Sullo sfondo della città dominata da artigiani e mercanti, si muovono le fila di cambiamenti epocali, che porteranno allo scontro tra Guelfi Bianchi e Neri. È qui che quattro giovani si affacciano sulle soglie della vita adulta, instradati ciascuno nel destino che il loro casato di nascita prevede. Fiammetta è fidanzata con Guido: un matrimonio combinato dai genitori che quasi per miracolo è riuscito a coincidere con i sentimenti reali provati dai due ragazzi, che si conoscono sin dall’infanzia e sono profondamente innamorati. Non è andata così bene a Lapo, l’impulsivo fratello di Fiammetta, invaghito di Agnola, la figlia della balia nonché migliore amica della sorella di lui. La sua bellezza angelica lo ha stregato ma entrambi sanno che non potranno mai unirsi, perché lei è una popolana e lui è già promesso a Matilda, la figlia del migliore amico del padre, in nome di un’antica promessa tra compagni d’armi. Tutto sembra già deciso ma a sconvolgere l’ordine basterà una piccola miccia, accesa la notte di San Giovanni durante i festeggiamenti del santo patrono. Fiammetta e Guido s’allontanano per poco dalla sorveglianza dei parenti e di fronte al falò per la prima volta si baciano davvero, profondamente, lasciandosi andare all’eccitazione e riprendendo il controllo prima di andare oltre. Eppure sarà proprio questo naturale moto dei sensi a piantare il seme del senso di colpa dentro Fiammetta, che si ritrova a imboccare il sentiero della religiosità e dell’ascesi, per cui è pronta a rinunciare a tutto, anche all’amore. Quello che invece non vuole rinunciare a niente è Lapo, che si unirà in matrimonio con la donna imposta da suo padre ma non dimenticherà mai il suo sentimento per Agnola, fino a compiere un gesto di violenza capace di unirli per sempre…
Gladis Alicia Pereyra con la sua dettagliata ricostruzione della Fiorenza di Dante è capace di trascinarci in un mondo molto lontano dal nostro, nel quale però le dinamiche adolescenziali non sembrano differire granché da quelle dei nostri giorni e permettono di immedesimarsi facilmente nei travagli dei protagonisti, rendendo il libro un romanzo d’amore a tutti gli effetti. Peccato per uno slancio eccessivo verso il misticismo nella vicenda di Fiammetta, che diventa difficile da comprendere e poco avvincente. Peccato anche per il linguaggio a tratti un po’ troppo pesante e barocco, che potrebbe rendere la lettura più difficile ai lettori meno preparati. Anche le digressioni storiche non aiutano a seguire il filo: a volte sono capaci d’interessare e rappresentano un valore aggiunto, più spesso gravano sulla narrazione senza un vero motivo. 

Intervista all'autrice
 
Nata a Cruz del Eje, una cittadina della provincia di Cordoba, in Argentina, Gladis è figlia di italiani. Ha perso il padre a soli 2 anni, ed è quindi cresciuta in una famiglia di sole donne: la madre, due sorelle molto più grandi e la nonna materna. Proprio quest'ultima le ha insegnato ad amare l’Italia. Per un processo quasi naturale quindi Gladis dopo alcuni anni realizza il progetto maturato nell’infanzia e a lungo rimandato di “ritornare” in Italia, come se quello fosse il suo vero luogo d'origine. Ma contrariamente a ciò che avrebbe potuto desiderare la nonna, non ha scelto di vivere a Pavia o Milano, ma a Roma. “In questa città, carica di tempo e di storia, mi sento nel mio ambiente naturale”, ci dice Gladis. E poi aggiunge molte altre cose.
 
Qual è il tuo rapporto con l’Italia?
E’ un rapporto d’amore. Un innamoramento infantile trasmesso da mia nonna materna che era lombarda, trasformatosi più tardi in amore. L’Italia possiede in larghissima misura tutto ciò che fa parte dei miei principali interessi: millenni di storia, di cultura, d’arte, una bellissima lingua e il genio che ha fatto possibile tutto questo. Vivo a Roma da tanti anni, non potrei vivere da nessun’altra parte; spesso scherzando con gli amici romani dico di essere più romana di loro perché loro lo sono per nascita e io per scelta. E proprio perché mi sento completamente identificata con questo paese condivido la preoccupazione di tanti italiani per il momento non proprio roseo per la cultura che stiamo attraversando.
 
Il tuo Il cammino e il pellegrino ha avuto una storia editoriale diciamo complessa: vuoi raccontarcela?
Il cammino e il pellegrino ha avuto la storia editoriale che, penso, abbiano tutti i romanzi giudicati non commerciali dagli editori. Vorrei sfatare, però, un luogo comune: non è vero che i manoscritti degli esordienti non vengano letti, almeno le grandi case editrici, se credono che possano essere interessanti, li leggono; ragione per cui chiedono di anticipare i contenuti in una sinossi. Tornando al mio romanzo, è stato rifiutato per le cause più disparate, spesso contraddittorie; un editore ha ritenuto che era solo bella lingua e che di storia non parlava un granché; un altro, invece, lo ha respinto perché l’aspetto storico prevaleva sulla narrazione, da un altro ho appreso che la bella prosa è segno del provincialismo italiano. Ci sono state anche delle risposte più serie, una casa editrice in una lettera ha accuratamente motivato la decisione di non accogliere il mio libro nelle proprie collane, un’altra al posto del consueto “molto interessante ma non rientra nei nostri piani editoriali”  mi ha risposto chiaro e tondo che, nonostante le qualità letterarie del romanzo, non ne vedeva alcuna collocazione sul mercato. Ormai mi ero rassegnata ha lasciare il manoscritto nel cassetto, quando leggendo un articolo sull’editoria ho scoperto la Piero Manni - piccola e raffinata casa editrice, così assicurava l’articolo - e ho fatto un nuovo tentativo, questa volta con successo. Malgrado i primi fallimenti presso le case editrici, il manoscritto mi ha dato non piccole soddisfazioni: alcuni scrittori tra cui Pietro Citati, Daniel Chavarria, Giovanna Querci Favini lo hanno giudicato positivamente ed è stato finalista del Premio Letterario all’Inedito Palazzo al Bosco.
 
Quanta ricerca storiografica c’è dietro questo romanzo? E perché proprio il Medioevo?
La ricerca mi ha portato alcuni anni, ho una lunghissima bibliografia. Per la ricostruzione urbanistica della Firenze medievale mi sono valsa delle cronache dell’epoca e di una cartina ricavata nel Novecento da un catasto del XV secolo. Oltre alla parte storica del Comune, mi premeva ricostruire il quotidiano dei personaggi, devo dire che è stata la parte più interessante, ho consultato libri di cucina, i Consiglia di Taddeo Alderotti, i cronisti, moralisti come Francesco da Barberino, poeti, Guido Cavalcanti soprattutto, il Davidsohn e, ovviamente, Dante e l’Enciclopedia Dantesca tra tanti altri. L’idea originaria era raccontare la storia di una mistica. In quel periodo mi interessavo molto alla storia delle religioni e Il libro dell’esperienza di Angela da Foligno mi aveva affascinata. Era mia intenzione ambientare la vicenda in una città non identificata e nello stesso secolo di Angela, così ho cominciato la ricerca prendendo come riferimento Firenze e vi sono rimasta intrappolata. Il XIII secolo è stato un periodo di enorme ricchezza a ogni livello. Prima parlavo del genio italiano, credo che mai prima di allora si fosse a tal punto manifestato. C’era un tale fermento, una tale energia creativa che facevano di Fiorenza una delle più importati città europee; non dimentichiamo che il fiorino d’oro era un po’ l’euro dell’epoca e che i banchieri fiorentini finanziavano i re e persino il papa. Fiorenza aveva più abitanti di Parigi e il doppio di Londra. Era anche un tempo di grandi sconvolgimenti socio – politici con una sequela di sangue, incendi e distruzioni che, tuttavia, non fermavano la fioritura delle arti, della letteratura, dell’artigianato, del commercio. In quell’epoca affondano le radici della modernità.
 
Al centro della vicenda ci sono forti passioni: l’odio, la violenza, il dolore, ma soprattutto l’amore. Giudichi riduttivo definire Il cammino e il pellegrino innanzitutto una storia d’amore?
Difficile rispondere a questa domanda.  Nel romanzo ho tentato d’indagare nei sentimenti, nelle pulsioni che agitano l’animo umano, indipendentemente dal periodo storico. Nel medioevo i freni inibitori dell’istinto erano più deboli e c’era una diversa concezione del bene e del male di quella  odierna per questo le passioni venivano fuori con violenza a volte devastante, non che oggi non abbiano la stessa virulenza se lasciate libere di agire, basta leggere la cronaca, solo che oggi i freni della coscienza sono maggiori. Penso che l’amore sia la più potente remora agli istinti peggiori. Senza l’amore forse l’umanità si sarebbe autodistrutta. Detto questo, è probabile che il mio romanzo possa essere letto come una storia d’amore, ma le mie intenzioni andavano molto più in là; l’amore era soltanto un aspetto. 
 
Sei d’accordo con chi ha fatto notare che il tuo sguardo su Firenze e sull’Italia è più sereno proprio perché sei straniera? 
Non sono del tutto straniera, metà dei miei geni sono lombardi da generazioni; di là di questo, penso che persino un fiorentino si sentirebbe un po’ straniero nella Fiorenza del XIII secolo e ne rimarrebbe affascinato come me, solo che in lui scatterebbe l’orgoglio che in me manca. D’altra parte il mio sguardo non è sempre sereno, a momenti è appassionato, soprattutto nei tre primi capitoli dove non mi limito a raccontare Fiorenza, ma in qualche modo le rendo omaggio. Non escludo, però, che possa agire su di me il potere di attrazione che Firenze e l’Italia in generale esercitano sugli stranieri, di cui non tutti gli italiani sono consapevoli; non dobbiamo dimenticare il ruolo della cultura italiana nello sviluppo della cultura occidentale. Uno storico della Firenze medievale, cui è impossibile non fare riferimento, è un tedesco: Robert Davidsohn.