Guglielmo Forni Rosa, Dopo la città

06-08-2016

Forni, molte frecce all'arco, di Renato Barilli

Ho letto con interesse l’esercizio narrativo di Guglielmo Forni Rosa, mio collega ai tempi di una comune docenza del corso di filosofia presso l’omonima Facoltà di Bologna, da cui poi io mi sono allontanato imboccando il ramo dell’arte, ma coltivando anche vecchi amori e interessi, di cui questo stesso blog è chiara dimostrazione, mentre lui ha professato fino al pensionamento le materie filosofiche, ma praticando pure, e con notevole efficacia, il sentiero parallelo della narrativa. Ecco ora questa prova, “Dopo la città”, non romanzo, forse racconto lungo, o meglio ancora repertorio di varie possibilità, affrontate con maestria, ma col limite, questo il rimprovero, o la constatazione, cui mi sento di approdare, di essersi sempre arrestato a un certo punto, indeciso su quale via imboccare con risolutezza. A tutta prima saremmo in presenza del genere fantascientifico, infatti la vicenda si svolge in una immaginaria metropoli, Phoenicia, ma investita, nel 2060, da una catastrofe non ben precisata, fra l’altro con l’annuncio tra le righe dell’avvenuto crollo, poco tempo prima, dell’Unione Europea. Le tracce dell’antica grandezza metropolitana sopravvivono in una selva di grattacieli, ma ormai fatiscenti, mentre la popolazione sta soffrendo di un’epidemia non meglio precisata, accompagnata da penuria di cibo, fame, decadimento ad ogni livello. Questo però a tutta prima non tocca il protagonista, Guido Lazzari, che ci si mostra quale solerte funzionario di una super-azienda capace di dare conforto ai suoi dipendenti, anche di tipo sessuale, offrendo ai proprio esponenti delle fanciulle pronte a soddisfare le loro voglie erotiche. Ma qui un primo scarto da un certo percorso, che magari porterebbe a una soddisfacente fruizione del rapporto sessuale con delle specie di docili schiave, in quanto Lazzari è tendenzialmente un solitario, poco portato all’erotismo, nostalgicamente legato al ricordo di Clotilde, la cara madre estinta. Scatta comunque il meccanismo del Grande Fratello, Lazzari si sa sorvegliato dalla dirigenza, al punto che non ha osato manifestare tutto l’attaccamento verso la madre, preferendo procedere nei suoi confronti adottando una cremazione asettica, nel timore che un eccesso di emotività rivelato in occasione del funerale lo potesse compromettere agli occhi dei lontani e nascosti dominatori. Ma malgrado questa sua ossequiosa deferenza, Lazzari non evita di cadere vittima di sospetti, anche perché ben presto dà segni di un declino psichico, di una misteriosa malattia mentale che lo debilita. A questo punto, infatti, Forni esce dalla pista della fantascienza e del futuribile, imbocca invece una via alla Buzzati, di un inesorabile processo di nevrosi che porta il protagonista a vedersi internato, imprigionato. Come nelle famose novelle di Buzzati, anche il nostro anti-eroe discende i gradini di un internamento sempre più costrittivo e in apparenza inevitabile. Da notare che Lazzari è circondato da altri personaggi come lui, devitalizzati, prede di disagi di ordine psichico, magari disposti ad aiutarsi reciprocamente, quasi in un rapporto reciproco che li vede farsi pazienti e nello stesso tempo medici gli uni degli altri. Ma Forni non vuole conformarsi del tutto alla pista “alla Buzzati”, cui non manca neppure un remoto sapore kafkiano, della discesa graduale verso il baratro di una malattia inesorabile. Infatti Lazzari riesce a fuggire, nel che forse trova giustificazione anche il titolo “Dopo la città”, si porta fuori dal mondo decaduto dei fasti metropolitani e dei controlli autoritari esercitati su di lui, e dunque c’è pure uno spezzone che si potrebbe riportare al genere “on the road”. Lo vediamo inerpicarsi, in fuga dalla città condannata, per un aspro sentiero di montagna, che però gli ricorda gli anni felici dell’infanzia, quando era circondato dal conforto dei genitori. Rispetto agli agi tipici di una confortevole vita in una sorta di falansterio, ma sottoposto a severi controlli dall’alto, subentra uno scenario di difficoltà, di rischi, di sopravvivenza elementare, dovendo cercare riparo in una bicocca, con il problema di difendersi dal freddo e di trovare un po’ di cibo. Come si vede, le frecce nell’arco del nostro narratore sono numerose, egli le tende con notevole sicurezza, ma alla fine, come già dicevo in apertura, sembra incerto su dove puntare, su quale obiettivo finale mirare e fare centro. O forse il lato positivo di questa modalità di scrittura sta proprio nel voler accennare a una molteplicità di vie d’uscita, evitando con cura di compromettersi in una direzione o nell’altra? Attendiamo nuove prove per vedere se ci sarà la scelta di un percorso univoco.