Una pulsante tensione metaletteraria, di Giovanni Ronchini
È con piacere sincero che si accoglie la prima raccolta poetica di Guido Cavalli, già conosciuto nella piccola – ma non troppo – comunità di letterati locali come autore di romanzi a sfondo resistenziale-fantascientifico a quattro mani con il sodale Lorenzo Lasagna. Piccolo canzoniere selvatico, questo il titolo della raccolta, esce per i tipi di una casa editrice tutt’altro che marginale, una delle poche che, a livello nazionale, sta tenacemente continuando a dar credito alla poesia e che infatti annovera, nel suo catalogo, autori di prim’ordine: da Giuliani a Pagliarani, da Balestrini a Sanguineti fino a Lello Voce. Come si vede il coté della Manni è decisamente orientato alla sperimentazione e all’avanguardia, sicché desta stupore la scelta di inserire nella propria biblioteca anche questo libro di Cavalli. Piccolo canzoniere selvatico, infatti, fa della ripresa del metro e del verso classici, della citazione e della rete di scambi con la tradizione letteraria, specie quella novecentesca, la nota senz’altro più evidente e suggestiva. Cavalli recupera in modo raffinato e consapevole il sonetto e la canzone, dosa sapientemente l’alternanza tra l’endecasillabo e i versi di misura inferiore, specialmente l’ottonario (mirabile è l’evidente citazione fortiniana della lirica D’improvviso si fa buio sulla favole consuete costruita con strofe di versi composti da doppi ottonari), richiama scientemente il magistero montaliano (ad esempio nell’epifanie meridiane, nella persistente incursione della morte tra i vivi), la lezione bertolucciana (nell’abbandono ad un’epopea elegiaco-famigliare), parte del lessico d’annunziano, la felice tendenza epigrammatica di Penna, il tono intimistico e minimale del crepuscolarismo e così via. Ma oltre a dare la giusta importanza alla perfetta quadratura stilistica (e riconoscere così la matrice prettamente letteraria dell’ispirazione dell’autore), la raccolta di Cavalli si può anche leggere scomponendone i due campi tematici principali, vale a dire la presenza della natura da un lato e dall’altro la lente della propria questione privata e del proprio intimo attraverso cui guardare il mondo.
Anche la natura, specie quella dell’Appennino, tuttavia, non entra in scena come sfondo o scenografia, né tantomeno come romantica fonte di ispirazione; ma bensì come l’elemento portante di una sempre pulsante tensione metaletteraria: i faggi, le cime, i cardi, i campi innevati, le case, le foglie marce dell’autunno sono segni di un linguaggio preciso, possiedono anzi una loro grammatica, una loro sintassi, sono disposti a costruire la tessitura di un racconto, la trama del grande libro del mondo. Il ruolo del poeta, allora, forse subalterno ma non per questo meno importante – anzi, ci pare quasi che per Cavalli sia proprio da questa subalternità che la poesia possa rivendicare ancora la propria presenza nel mondo e cancellare un po’ di quell’opacità a cui cent’anni di perdita d’aura e di sliricazione l’hanno condannata –; il ruolo del poeta, si diceva, è a questo punto quello del traduttore, dell’interprete, di colui che traghetta quel significato, quella grammatica e quella sintassi nel linguaggio e nel significante degli uomini, qualcuno che trasfiguri quel codice e lo renda comprensibile, perché la poesia è del mondo e nel mondo, al poeta spetta il compito di decifrare e di tradurre.
Da ciò si capisce come la natura, nella poesia di Cavalli, non rivesta affatto il ruolo risaputo di agente ispiratore o di potente veicolo di grandi e incontrollate emozioni; lo si intuisce, tra le altre cose, dal gusto di una ricerca del termine appropriato, quasi tecnico – e che a volte rischia di apparire una scelta un po’ retrò –, una ricerca che risponde ad un’esigenza di correttezza e di rispetto nei confronti della realtà fenomenica, e che proprio per avere un obiettivo, diciamo così, morale, non ha paura di approdare a esiti stilistici anche ruvidi e dissonanti. Anche perché il rapporto tra l’autore e la natura non è affatto pacificato, ma è piuttosto ricco di spigoli e di paure: Cavalli pare a volte come timoroso nei confronti del suo volto selvatico, al punto che l’amore e la ricerca sovente lasciano lo spazio allo stupore e a un tentativo di avvicinamento che si realizza attraverso il medium linguistico (un’istanza prima di tutto conoscitiva, quindi, per niente dissimile da quella, per esempio, di Pier Luigi Bacchini). Nella poesia di questa raccolta, pertanto, ci si imbatte in una sorta di elegia senza idillio, laddove la natura, coi suoi paesaggi agresti, con le quinte degli alberi, coi segni che essa dissemina per noi come in un gioco enigmistico, riveste sì un posto di rilievo tra i motivi principali, ma essa si impone anche con tutta la sua forza di fenomeno piuttosto che come veicolo metaforico.
L’altra vena di questa raccolta è senz’altro il tono da “canzoniere famigliare”, un tono tutto giocato attraverso il fitto reticolo dei sentimenti e delle relazioni che legano l’autore alle persone a lui care ed espresso attraverso una scelta che si potrebbe definire di “basso profilo”, che ricusa senza dubbio ogni viraggio retorico e che quasi fa pensare a qualche reminescenza crepuscolare, alle «buone cose di pessimo gusto» di gozzaniana memoria. Ed è soprattutto a partire dalla seconda sezione che si apre questa finestra più intima. Ma ad ogni modo si può dire anche che il percorso intimo e famigliare sia specchio della natura e che i due percorsi finiscano spesso per combaciare e per non essere affatto incoerenti (una sintesi, dunque, che rimanda immediatamente al magistero bertolucciano, laddove il processo “sinestetico” rende del tutto inscindibile il piano per così dire geografico – l’ambientazione dell’alta Val Parma – da quello intimo – le pieghe e gli anfratti della “saga famigliare –).
A reggere l’impianto del sistema di ricordi e di sentimenti privati Cavalli pone alcuni cardini simbolici: il castagno (un vero e proprio simbolo totemico, la porta magica che collega la dimensione del mondo e quella dell’intimo e del personale, il luogo degli incontri e delle rivelazioni, la nicchia delle confessioni e l’arena in cui si misurano i sentimenti, quasi un ampolla di vetro dentro la quale si spende una vita parallela, differente da quella “ufficiale”, rischiata sempre al massimo della posta); e la figura del padre (una presenza costante ma discreta, un nume tutelare, un fantasma – una presenza in absentia, dunque – il cui compito è quello di suggerire la mappa per percorrere i sentieri che conducono alla maturità, di indicare i punti cardinali su cui orientare il cammino – e che poi spetta al figlio saper interpretare, leggere, farne esegesi). A sfondo di tutto questo, a completare il disegno e a renderlo unitario e coerente, Cavalli pone la sua idea di “sincronia universale”, il presupposto in base al quale essendo il tempo eternamente ciclico, tutto è qui e ora: così come i morti sono tra noi e ci parlano, sono nostri compagni e fanno parte di questo infinito mondo di cose, allo stesso modo il passato è adesso, i suoi odori, i suoi suoni, i suoi colori, le parole, tutto è recuperabile nel momento stesso in cui si rende percepibile ai sensi. Si potrebbe quasi parlare di una sorta di panteismo, come se per Cavalli valesse l’idea di uno spirito presente in ogni cosa con il proprio soffio, uno spirito – non trascendente, ma attentamente vincolato ai dati fenomenici – che ha il potere di sincronizzare le anime delle persone e gli oggetti della natura e che per lo stesso motivo mette in moto il processo di creazione poetica.