Guido Cavalli, Piccolo canzoniere selvatico

01-06-2008

Una voce autentica, di Emilio Zucchi 

Una voce autentica, che rimanda alla scontrosa ma precisa pronuncia di Rocco Scotellaro; un senso di appartenenza al paesaggio naturale e agreste, rappresentato aspramente, senza sdolcinatezze, con un uso della metrica che a versi di misura classica ne alterna altri liberi o, più spesso, regolari volutamente, e con un interessante effetto di affaticamento espressivo, anomali nell’accentazione; una concretezza di scene realistiche rappresentata con virile asciuttezza, e in cui liricamente si raddensa un dolente ma non vinto riflettere sulla condizione umana. Si presenta così la poesia di Guido Cavalli, 34 anni, parmigiano di nascita e residenza, che fino a pochi anni fa è però vissuto a Bosco di Corniglio, villaggio di duecento anime situato sull’Appennino parmense, tra stupende montagne che si avvicinano ai duemila metri di altitudine. Cavalli esordisce con Piccolo canzoniere selvatico, una raccolta poetica organica, che segue una linea tematica di forte caratura esistenziale in senso anche montalianamente metafisico, in cui il motivo di una natura inselvatichita a causa dello spopolamento delle terre alte sembra simboleggiare un sacro enigma verso il quale tendere, attuando così la propria essenza di esseri umani, heideggerianamente in cerca di un assoluto che la parola poetica può forse, a tratti, dischiudere. Nulla insomma, nell’Appennino parmense di Cavalli, ricorda le raffinate morbidezze bertolucciane: non ci sono malinconiose e trasognate e intimistiche e introspettive e aristocratiche e alessandrine dolcezze; qui tutto è aspro e schietto, anche certo lessico aulico talora inserito con depistante ruvidezza. È una ritrosia che fa piuttosto pensare a un altro poeta “appenninico”, pur se affacciato sul mare: l’intenso e scabro Paolo Bertolani. Così, tra lapidi commemorative di partigiani massacrati, tra presenze di animali del bosco e misteriose e monologanti apparizioni di personaggi senza identità che, per squarci di pochi versi, irrompono nel bianco della pagina come rumori di sterpi rotti, Guido Cavalli mormora: “Ho confidato nelle ore mute / del sonno, acqua che traspare immagini / serene al fondo, cose intravedute, / pascoli mattutini ancora vergini / di brina, voci ringhiose ed acute / di cacciatori levate dagli argini / al balzo d’una volpe anzi le mute, / echi e balugini, ricordi, vertigini. / E le parole da allora taciute / eccole infine mostrarsi nell’ora, la più lontana dal mondo. È notte, / consumata la lampada si spegne”.