Guido Conterio, Incanto e guarigione

29-04-2011

Sintonie, di Claudio Morandini

È bello vedere l’ultimo romanzo di Guido Conterio, “Incanto e guarigione – un apologo civile” in mezzo ai titoli della collana Pretesti di Manni: perché si respira, nelle pagine di questo romanzo, un amore intenso per la galassia di modelli letterari “alti” che in quella collana sono ben rappresentati – la cara letteratura di una volta, che non aveva paura di scavare con comodo nelle profondità, di porre domande vaste, di chiedere molto alla lingua e allo stile, e si nutriva a sua volta di altra letteratura oltre che di vita. Quanto Conterio si senta interno alla linea che da una tendenza letteraria oggi minoritaria conduce a ritroso alla solenne inquietudine della letteratura del passato, all’illustre classicità dei moderni e dei novecenteschi, lo si coglie anche dalla pluralità di echi di cui risuona il suo “Incanto e guarigione”: e non parlo tanto del Buzzati del “Deserto”, o del Mann della “Montagna”, rimandi fin facili e d’altro canto dichiarati dallo stesso autore, come nel precedente “Fosca bis” la rilettura (una riscrittura, anzi) di Tarchetti. No, gli echi “interni” al romanzo sono tanti, diversi, si annidano ovunque, nei nomi, desunti da melodrammi, correnti musicali e letterarie (Luno Cavaradossi è il protagonista; abbiamo poi il capitano Javert, frate Borodin, il geometra Albéniz, e via via gli altri); risuonano nelle situazioni, nelle battute, negli atteggiamenti.

Il presente è disgustoso, sembra dire Conterio, si colora di volgarità minacciosa, di malattia e di morte: la letteratura offre un rifugio valido agli orrori di un presente declinante – la letteratura, ma anche l’amicizia vissuta come rasserenante abitudine, l’auscultazione dei propri mali, l’esorcizzazione delle proprie angosce nella conversazione sempre un po’ cavillosa (scoprire che le proprie angosce sono comuni è consolante come condividere gioie, o quasi), i piaceri carnali (anche solo pensati, vagheggiati, lasciati in una dimensione ipotetica), l’aggrapparsi alle piccole cose (le lettere di e a un amico, la buona educazione, la bellezza vaga di certi lontani ricordi...). I personaggi dei romanzi di Conterio, chi più chi meno, appartengono alla medesima categoria antropologica: per non soccombere (subito) all'insensatezza del vivere, alla bassezza del mondo, tendono a socializzare, a formare consessi solidali, a misurarsi in discussioni che offrono il conforto della condivisione di un medesimo linguaggio. Sono inetti: gli inetti novecenteschi, alla Svevo o alla Pirandello, riflessivi, anzi contemplativi della propria inettitudine e dell’affannarsi dissennato del resto del mondo. Luno Cavaradossi appare da subito nei pensieri, nei rapporti con gli altri, come cultore di humanitas in un mondo che ne è ormai privo, e alla ricerca inquieta di consimili. Il suo – anzi, il loro pessimismo spiega la loro inazione: se tutto rotola inevitabilmente verso il peggio, a che serve agire? Si lasciano agire, piuttosto, si lasciano maneggiare, manipolare, spostare, curare, palpare, piegare, raddrizzare, dirigere. Detto tra noi, dipendesse solo da loro, la trama non avanzerebbe, si adagerebbe in una elegante palude di galanterie afflizioni cerimoniali e qualche inquietudine sempre molto per bene – come è quasi sempre la vita, quella vera, inerte declinazione di momenti molto simili. Al di sopra delle loro volontà, però, si agita la storia, quella vera, incombe l’imprevedibilità di forze capricciose per quanto parche di colpi di scena: la guerra, la peste, la morte, l’invasione degli Uguali… Dalla reazione dei personaggi a questi traumi esterni arrivano i movimenti della trama, il procedere degli eventi, i cambiamenti di prospettiva, qualche volta i gesti isolati di ribellione, mai urlati e sempre educati.
Ritroviamo declinati in due modi diversi e complementari i luoghi chiusi che i personaggi di tutti i precedenti personaggi di Conterio hanno abitato: in “Città caffè” era questa città sognata, questo limbo rinfrancante di provincia urbana; in “Fosca Bis” era già una caserma, ma abitata come un albergo; in “Incanto e guarigione” entriamo prima nella variante angosciante dell’avamposto militare senza nome, poi in quella piacevolmente ottundente del Soggiorno Climatico e Curativo “Guardiani del Lago”. Luoghi chiusi, comunque, benché minacciati entrambi dall’esterno, e abitati da subito da un senso di abbandono e di resa. Gli Uguali, che premono ai confini e che alla fine prevarranno, non sono comunque i Tartari di Buzzati (chissà come se li immaginava, Buzzati, i Tartari, a proposito); e pure la Peste da cui ci si difende con lunghe e complesse terapie nella clinica-rifugio si presenta come un morbo di rara discrezione, che dosa gli orrori dandone effetti quasi simbolici, contiene al massimo il numero di vittime (irrisorio), e sin dal nome (“Peste Sottile”) sembra giocare con l’understatement.
Non sono chiusi solo questi luoghi: il mondo, tutto assieme, è una prigione ben chiusa, assiepata di uomini, puzzolente di corpi. Hai voglia a rifugiarti sul lago, a fingere di risiedere in un luogo ameno da cartolina: il pensiero che tutto il mondo sia la cloaca in cui si è svolto il corso di Allievi Ufficiali non ti abbandona, se non per essere sostituito dall’altro pensiero, ancora più soffocante, che non vi sia mondo attorno, e che tutto sia un’illusione dei nostri sensi. In questo mondo opprimente, ingrigito, fermo - si direbbe - a un perenne autunno, non aiutano Luno condannato alla promiscuità il non voluto acuirsi dei sensi (olfatto soprattutto), l’ipocondria eletta a stile di vita (come già in “Fosca bis”, ma ora in modo più cupo, meno ilare).
L’ironia che Conterio dissemina nelle sue pagine non sa (non vuole) nascondere stavolta una malinconia accentuata, una sorta di contemplazione disperata (si può essere disperati e insieme mantenere il pieno controllo di questa disperazione e dei suoi effetti collaterali? Conterio può farlo, con uno stile sempre sopraffino, teso tra la “lentezza” della prosa d’arte e un’impazienza narrativa, anche insofferente).
I sintomi della fine sono dappertutto, vanno cercati, individuati, studiati sotto la lente d’ingrandimento di una lingua precisa e capricciosa e infaticabile; i germi della sofferenza si annidano ovunque, principalmente nei meccanismi corrosi e difettosi dei corpi, poi nelle cocciute stupidità degli altri, poi (ed è un poi complessivo, più che conclusivo) nell’ossessiva ricerca di quei germi, nell’occhiuta determinazione a sentirsi e vedersi soffrire in ogni caso, anche quando si sta benino, anzi soprattutto quando si ritiene di stare benino. Il pessimismo di Guido Conterio si dilata, più che in altre occasioni, nella prima sezione del romanzo, “Il confine”: qui l’insensatezza delle convenzioni umane e la scoraggiante vanità del tutto prendono alla gola, e condurrebbero alla disperazione più nera i personaggi se non si intuisse una possibile (non certa, si badi, solo possibile, magari soltanto auspicabile) soluzione escatologica. Il modello buzzatiano alla base di questa sezione è senza dubbio degradato, in un tripudio capriccioso di puzze, seghe, fighe, cazzi, ecc., e privato di ogni solennità; allo stesso tempo Conterio ne estende (verso gli estremi, l'alto e il basso) la varietà linguistica, la forza espressiva (Buzzati, poveretto, nemmeno da giovane è sembrato sensibile alla ricerca linguistica, alla temperatura letteraria).
Conterio conclude questo digradare verso la sconfitta non con la tragicità della capitolazione o della morte, ma con una sorta di malinconico lieto fine, che è un po’ resa per sfinimento un po’ accettazione un po’ scoperta di un altro angolo nascosto, inaspettato, in cui rifugiarsi ancora, riprendere fiato – in questo caso, le rotondità di Sybil, che è pur sempre una degli Uguali, e infine la terra e la casa di quest’ultima. Qui Luno Cavaradossi può tornare a sperare in una dilazione, in un precario miglioramento, in un rallentare del suo cammino verso l’ineluttabile. Ci riconosciamo in questo bisogno di Luno – e di Conterio, e di tutti, contemplativi e attivi – e ci commuoviamo quasi dinanzi alla concessione di questo sfocato happy end.