Guido Conterio, La danza della medusa

08-03-2016

De la musique avant toute chose, di Claudio Morandini

«De la musique avant toute chose» andrebbe detto quando si parla di un romanzo di Guido Conterio. Il dato stilistico, la cura del ritmo della frase e la scelta lessicale improntata a pluralità di registri e toni continuano a essere prioritari per l’autore di Aosta, che dedica a essi ogni attenzione, riuscendo a trasmettere al lettore il fascino e la necessità di questa ricerca. Così è anche per questo suo ultimo romanzo, “La danza della medusa”, pubblicato, come il precedente “Incanto e guarigione”, da Manni nella collana Pretesti.

In un futuro remoto, allo studioso Sugar Abbagnano viene affidato (da un rettore che è un ologramma proteiforme piuttosto simpatico) il compito di redigere lo studio definitivo su Giuseppe Rocci, insigne superesperto a noi contemporaneo e quasi dimenticato dai posteri, prodigiosamente rigenerato, in un certo momento epifanico della sua vita, dal tocco tutt’altro che urticante della medusa del titolo. Ad aiutare Abbagnano nella ricerca c’è una giovane e affascinante ricercatrice; attorno a loro, vive una collettività esente da mali e angosce e un po’ stolida, per la quale la morte di ciascuno è programmata fin dalla nascita.

Diciamo subito che all’autore interessa poco ossequiare le consuetudini del plot e, una volta archiviate le premesse intriganti, con ardita operazione di depistaggio preme assai più accompagnare i suoi personaggi (il Rocci del futuro remoto, l’Abbagnano del nostro presente duplicato nell’altra figura del sodale Zwirner) in una sorta di crociera dei sensi e dello spirito. Ci affacciamo allora su una zona nella quale si alternano declinazioni cangianti di luoghi ameni e dialoghi filosofici, e si mette in scena la glorificazione di un genio: una lunga cerimonia intrisa di nostalgia, rimpianto e qualche risentimento, pervasa di una stramba solennità, di una scoppiettante malinconia.

Per il resto, ne “La danza della medusa” si ritrovano atmosfere e figure familiari ai frequentatori della narrativa di Conterio: anzi, “La danza” si presenta sin dalle prime pagine come una sorta di summa, in cui risuonano echi anche espliciti dai precedenti “Città caffè” e “Fosca bis” (entrambi pubblicati da Mobydick) fino al già citato “Incanto e guarigione”: i personaggi si aggirano compiti, somiglianti gli uni agli altri come le donne di Delvaux, in un futuro che è insieme la parodia del nostro presente e la fuga da esso. Portano tutti nomi ammiccanti, si concedono insistite e incongrue sbandate sessuali, amano conversare in modo sempre un po’ sofistico di felicità e finitudine umana, tradiscono quasi subito una vocazione alla sedentarietà che ben contrasta con il loro muoversi da diportisti in un clima di vacanza perenne. È il mondo, fitto di rimandi ad amori letterari mai traditi (in equilibrio tra la linea lombarda degli scapigliati e quella siciliana di Pizzuto e Bufalino, con interferenze morselliane, landolfiane e chissà di chi altri), che Conterio va esplorando libro dopo libro, con sistematicità e in solitudine. Certe sue divertite invenzioni futuristiche (à la Verne, alla Salgari), affastellate nelle pagine con generosità d’invenzione, consolano dopo la lettura di troppe distopie tutte uguali di cui l’editoria da qualche anno sembra non saper fare a meno.

Leggiamo allora una delle pagine lavoratissime di questo romanzo di Conterio, per gentile concessione delle edizioni Manni.

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Un estratto di LA DANZA DELLA MEDUSA di Guido Conterio (Manni)

Lo so, ti apparirà ingiusta, eppure è la regola che si è imposta l’umanità che mi è coeva: nessuno viva di più, né meno, di un equo numero di anni, fissato alla luce di studi precisi ma anche non senza un certo dibattito e qualche attrito, presto spento, fra i decisori.
Da quarantacinque a cinquantacinque.
Pochi? Tanti? Si ritiene, ripeto, che si tratti di una dose ottimale per concludere qualcosa nel mondo – o convenire di aver fallito. Così tutto è congegnato in modo che ciascuno di noi tolga il disturbo mentre attraversa questa estrema fascia d’età, in un giorno e momento imprecisati, alla vigliacca; voglia o non voglia lo stato dei suoi affari.
Ora non domandarmi come si faccia. Lontano per formazione e interessi dal dominio delle sofisticherie tecno-mediche, non ho mai afferrato più di tanto i dettagli. Sembra che, fin dai primi vagiti nel conturbante lindore delle sale-parto, veniamo tutti muniti di un dispositivo allo stato semiliquido che agisce nel sangue da lì in poi, incrocio fra timer e vaccino, tenendoci in salute finché è giusto.
Decenni di esistenza senza magagne. Goduti e svaniti i quali, allo scoccare dell’ora x, lo stesso intruglio che così benefico circolava in corpo provvede a pilotarci l’uscita solertemente come un veleno (verso un nulla, dicono, che tutto inghiotte).
Si chiama fair disconnection, questa maniera educata di crepare… ma anche perché è ripulita, davvero: da ogni di più di dolore e/o, come minimo, malcontento che una volta si accompagnavano alla situazione.
Cinque minuti, non più, di una specie di agonia depotenziata.

Dopo un iniziale, lieve capogiro, un lieve, pare, dissanguamento: tutto di dentro, tutto senza rilasci di porcherie. E un’aritmia nuova, che zavorra il cuore. L’uomo o donna che sia si sdraia dove può, mangiata la foglia. Nuvole nere sulla vista; e un po’ di freddo. Fine.