Ignazio Apolloni, Marrakech

01-05-2006

Un marcato policentrismo, di Franca Alaimo

Marrakech, l’ultimo romanzo di Ignazio Apolloni, si caratterizza per un marcato policentrismo, sebbene non manchi di un fulcro narrativo facilmente individuabile, che è la storia di una bellissima berbera di nome Farah Said che lascia la sua tribù ed il suo villaggio, nel Marocco, e fa carriera nel cinema grazie al regista francese Claude Lelouch. Apolloni, infatti, inserendo moltissime altre storie all’interno di quella principale, spezza il filo narrativo, secondo una tecnica già sperimentata dagli Arabi nella meravigliosa raccolta di novelle delle Mille e una notte; e in seguito così ariosamente adoperata da Ariosto e, con ben altra gravità, di indagine psicologica da Manzoni nel suo romanzo de I Promessi Sposi. Lo stesso tempo narrativo che segue l’itinerario biografico e mentale di Farah, senza eccessi d’introspezione o pathos o sentimentalismo, risulta estremamente accidentato, altalenando fra passato e presente, spesso con bruschi e repentini passaggi che non ammettono distrazioni in chi legge. E non si tratta di un vezzo dell’autore, ma di una necessità espressiva utile sia ad immergere il lettore all’interno di quella percezione ciclica del tempo propria delle tribù nomadi, in genere, e di quelle berbere, in particolare; sia a riprodurre il dialogare frenetico tra passato e presente biografico e culturale nella mente di Farah, la cui storia personale si gioca tutta sul versante di un’identità che si misura con due civiltà opposte cercando, non senza qualche affanno, di ricomporsi senza distruggere le proprie origini, e tuttavia adattandosi all’esperienza della diversa civiltà occidentale, per precisione quella francese, svolgendosi la sua vita di attrice cinematografica e di compagna del regista Lelouch nella città di Parigi. Il suo itinerario mentale sembra oscillare, dunque, tra catabasi ed anabasi, il primo movimento coincidendo con la ricerca del proprio “io” più profondo che affiora ogni volta che, tornata in Marocco, scava nella terra e nel passato; il secondo con l’ascolto dei molti richiami della civiltà occidentale, nei suoi numerosi ritorni a Parigi. Ora è evidente che nella presente circostanza storica segnata da un confronto difficile tra Occidente ed Oriente, tra Cattolicesimo ed Islam, tra Democrazia e Teocrazia, con le conseguenze che stanno sotto gli occhi di tutti, il libro di Apolloni ha anche il pregio di essere sorprendentemente attuale; ma quello che più interessa è il fatto che in qualche modo assuma un valore “profetico”, fermo restando che Apolloni affronta il problema più da scrittore che da storico, sebbene egli sia molto puntuale anche nella ricostruzione dei fatti storici. Innanzitutto i molti personaggi che hanno una qualche relazione con Farah sembrano rappresentare, quasi con effetti chiasmatici, i vari aspetti del rapporto tra l’Occidente europeo e i popoli colonizzati del Nord Africa. Tra questi il regista francese Lelouch, pur aperto alle culture altre, rappresenta nel suo grado più elevato la raffinatezza e la complessità del pensiero occidentale fondato sull’immagine. Di contro, un altro personaggio, Leila Dhubai, prima simpatizzante per i cittadini francesi, e che, dopo il matrimonio con un arabo, sposa la causa degli arabi irredentisti, senza però rinunciare a molte delle libertà occidentali, rivela un’instabilità psichica ed emotiva, che è spia di un suo stare in bilico fra due culture senza sapere risolverle in un nuovo equilibrio. Diversi fra loro anche gli amanti di Farah: Julien e Vivien, francesi doc entrambi, che, pur valutando come ricchezza la biodiversità, non riescono a comprendere del tutto l’altro, nemmeno l’amata berbera Farah, soprattutto perché non riescono ad apprezzarne la lingua, e non soltanto perché non la sanno decodificare, ma soprattutto perché non ne sanno gustare la diversità sonora. Apolloni, infatti, nell’affrontare il problema della diversità, da scrittore qual è, costruisce una tesi molto interessante sulla strettissima connessione fra la qualità sonora di una lingua e la struttura psichica di chi l’ascolta e la parla fin dall’infanzia. Sfogliando le molte pagine di Marrakech, più volte ci si imbatte in affermazioni che confermano questo punto di vista. L’incontro con la civiltà francese per Farah (che non ha mai letto un testo berbero poiché tale civiltà si è quasi del tutto affidata all’oralità) avviene su testi scritti; la qual cosa genera una sorta di divaricazione psicologica in Farah tra scrittura ed oralità, a cui, si aggiunge il linguaggio filmico per mezzo del quale, diretta da Lelouch, Farah può dare parola ed immagine a riti, figure, paesaggi e personaggi della sua terra, i quali ultimi, specie se maschili, appaiono come delle icone antropologiche. Ma il dissidio tra le due lingue, francese e berbera, rimane soprattutto all’interno della loro qualità sonora, ed è in definitiva quest’ultima che, secondo Apolloni, crea rapporti diversi con la realtà e con gli altri. È quello che comprende il regista Lelouch, già affascinato fin dall’infanzia dal “popolo color cioccolato al latte, i Mauritani” e dalla “diversa estensione della voce” e “dalla sua durata”, quando, ascoltando ad Algeri, dove si è trasferito per qualche tempo con la famiglia, le madri richiamare i loro figli, decide di entrare in quell’universo sonoro, convinto, come ha letto da qualche parte, che quelli che conoscono più lingue sono “capaci di maggiore penetrazione nelle problematiche esistenziali” dell’uomo. Anche Farah, mai stanca di fare di se stessa un territorio di indagine e di misura delle molte difficoltà scaturenti dall’incontro di civiltà diverse, sente che l’assimilazione con i Francesi, benché possa dirsi, ad un certo punto della sua esperienza, per molti versi compiuto, non può mai esserlo in toto. La domanda fondamentale resta, allora, come, sia possibile evitare un innesto acritico di un civiltà sull’altra, che faceva dire a Bataille che esso “avrebbe potuto alterare le strutture nervose e viscerali dei francesi”. Tutta la questione sembra infine riassunta in questa massima, citata e condivisa da Apolloni: “Cosa siamo se non un suono che si è presa la libertà di esistere”? Non è, dunque, così curioso, come sembra, concludere che le storie sentimentali di Farah si infrangono per una non riuscita intesa “sonora”, tant’è che la scelta della bellissima berbera cadrà su un quarto amante, Joel, un misto ed irregolare in quanto ad origini, con il quale Farah può sentirsi pienamente se stessa, e non vergognarsi della sua anima che è rimasta per molti aspetti berbera, e dei suoni della sua lingua berbera. E la pro-fezia a cui accennavo? Eccola a pag. 235: quando le voci del profondo “prenderanno corpo e saranno capaci di dialogare con il silenzio, cesserà la Babele”. Certamente anche l’amore, che non è senso di paternalistica protezione (come per Lelouch) né curiosità effimera (come per Julien e Vivien), ma ascolto, condivisione, rispetto delle radici dell’altro, assunzione in toto della storia dell’altro, è una via per l’annullamento dell’odio e dell’indifferenza: Joel e Farah rappresentano il punto di arrivo di un’esperienza dell’amore, che la protagonista ha vissuto personalmente, ma che assume anche un valore di esemplarità, costituendo una risposta al quesito intorno a cui si articola tutto il romanzo: se sia possibile cioè una vera coesistenza e una equilibrata integrazione fra civiltà diverse. Anche il frequente mutare degli spazi che accompagnano Farah nei suoi numerosi spostamenti dai dintorni di Marrakech a Parigi e viceversa hanno, appunto, la funzione di creare serrati confronti fra la civiltà francese e quella dell’Africa arabizzata e poi colonizzata dai Francesi, e nello stesso tempo di cogliere la complessità di un territorio in cui vivono Arabi e tribù come quelle dei Berberi soltanto in minima parte arabizzati, della quale fa parte la protagonista Farah, ma anche gruppi di ebrei, integrati ma orgogliosamente non assimilati, nei loro quartieri, che Sarah visiterà solo dopo avere maturato la sua apertura verso tutto ciò che le era rimasto fino ad allora sconosciuto. II romanzo, dunque, ha il suo centro in una questione squisitamente storica, politica e culturale, estremamente attuale, come già è stato detto, ma sbaglieremmo a ridurlo solo a questo, perché si tratta di un romanzo che contiene in sé molti possibili percorsi di lettura.
Per esempio, il grande rilievo che vi ha, fra tutti gli altri protagonisti, il regista Claude Lelouch lo fa essere anche una sorta di omaggio all’arte cinematografica della cosiddetta Nouvelle vague, che ebbe inizio in Francia negli anni cinquanta del trascorso secolo, in particolare con Bressòn, per affermarsi pienamente nel decennio successivo. Credo che Ignazio apprezzi questo movimento soprattutto per i suoi forti legami con la letteratura; visto che i maggiori registi della Nouvelle vague erano stati cinefili ed appassionati critici, che avevano pubblicato sulla famosa rivista Cahiers du Cinéma e spesso si ispiravano a capolavori letterari. In genere, infatti, il cinema per questi autori era un modo di scrivere analogo al poema, al romanzo al saggio. Tra i nomi più importanti Truffaut, Godard, Rivette, Chabrol, Rohmer, ma anche altri non provenienti dall’ambiente della critica cinematografica, come Melville, Demy, Rouch, Vadim, Malle, Pialat. Ma perché Ignazio Apolloni sceglie, fra i molti registi della Nouvelle vague, proprio Claude Lelouch? I motivi sono tanti: innanzitutto, perché il padre del regista francese era un negoziante ebreo di tessuti (e sappiamo quanto Ignazio sia affascinato dalla cultura ebrea) di origini algerine; e ad Algeri Claude emigrò con la famiglia per sfuggire alla persecuzione nazista (ma il bimbo tornò dopo poco tempo a Parigi con la madre); il che vuole sottolineare quanto sia stata precoce la sua esperienza della composita realtà del Nord Africa. Un altro motivo potrebbe essere la preferenza accordata dal regista alle figure femminili autonome, intelligenti, carismatiche; e noi sappiamo quanto Ignazio ami anche lui la donna libera da schemi e prigioni sociali e culturali. Inoltre, tra Marrakech e Lelouch, in effetti, c’è una precisa relazione; infatti, quando dopo l’11 Settembre del 2001, fu organizzato il primo Festival international du film proprio a Marrakech, e si rischiò di vedere più defezioni che presenze per paura, Lelouch, riconoscente per l’accoglienza che gli era stata riservata durante le riprese in Marocco, non solo confermò la propria presenza, ma proiettò in anteprima And now Ladies and Gentlemen. Né si può dimenticare il fatto che in Lelouch la vocazione al cinema sia nata da quando, bambino, veniva lasciato dalla madre, che non poteva pagare una babysitter, in custodia alle maschere di un cinema parigino. Qui, dopo avere visto più volte lo stesso film, il piccolo Claude correva dietro il telone pensando di incontrare gli attori. La precocità della vocazione di Lelouch confermerebbe quanto ci si sente dire da Ignazio, qualora gli si chieda da dove, a suo parere, nasca un talento artistico, e cioè che sia solo una questione di DNA. Per ultimo, pur sembrando una notazione marginale, bisogna sottolineare i numerosi legami del regista francese con gli Italiani, tra i quali l’avere avuto come suo maestro Roberto Rossellini e l’avere frequentato il regista italiano Gillo Pontecorvo (recentemente scomparso), trasferitosi per un lungo periodo a Parigi, e autore, fra gli altri, del celebre film La battaglia d’Algeri del 1965, se non ricordo male, e tra le tante compagne di vita, anche la bellissima italiana Alessandra Martines. Il lettore deve, però, tenere conto che, nel presentare la figura di Lelouch, Apolloni mescola insieme fatti realmente accaduti ad altri verosimili, come, per esempio, l’incontro con la berbera Farah. Accanto al regista si muove, inoltre, tutta l’intellighenzia parigina degli anni a cavallo fra gli anni sessanta e i primi due decenni del settanta, fra cui Cocteau, Andrè Màsson, Isidore Isou, Albert Dupont, Roche Bobois ed altri, per cui il romanzo può leggersi anche come un affresco completo del clima culturale parigino far gli anni ‘50 e gli anni ‘70. Ancora, Marrakech è un percorso all’interno della nascita della scrittura e di come essa abbia mutato l’uomo: dall’oralità che ancora resiste presso alcune tribù berbere e che costringe l’uomo alla massima attenzione ed insieme alla più sfrenata immaginazione e fluidità nella crescita progressiva della letteratura attraverso le generazioni (come possiamo immaginare sia accaduto per la letteratura omerica) a quella complessa ed eccessivamente raziocinante degli artisti francesi del ‘900, capace di creare aloni di solitudine e di estraneità alla concretezza reale, alimentata dalla dimensione lussuosa della vita quotidiana, probabilmente con un implicito invito da parte di Apolloni, a tornare a dire il cuore delle cose, a fare della scrittura come delle immagini strumenti di vera e globale conoscenza.