Tra Parigi e Marrakech, uno strano rabdomante che di nome fa Apolloni, di Filippo Maria Battaglia
«Quanto alla storia non avrebbe avuto bisogno di un sito preciso né di uno scriba. Sarebbe bastato il ricordo o la fantasia. Il primo a perpetuarne la memoria; la seconda ad arricchirla di senso. Il tutto però da versare nel crogiolo delle suggestioni e delle idee da cui nascono le arti e la vita».
Basterebbe questa pericope a descrivere l’ultimo romanzo di Ignazio Apolloni, Marrakech (Manni, 2006, pagine 406, 25 euro). Anche in questo caso, come già in Gilberte, la storia in sé ci rivela poco: Fatima è una giovane berbera che viene scritturata da un rinomato regista francese, Claude Lelouch, per un film da girare nella capitale marocchina. L’esperienza cinematografica cambierà le sorti della ragazza africana, che dopo l’esperienza partirà per la Francia, innamorandosi dapprima dello stesso regista e intrattenendo successivamente delle relazioni con alcuni giovani parigini. La protagonista deciderà poi di rimpatriare in Marocco per fare nuovamente ritorno al termine del romanzo a Parigi, col desiderio di «mangiare un’omelette au jambon».
Di Apolloni, Raffaele La Capria ha detto che «è uno che si gioca la chiacchiera», con ciò intendendo che è uno scrittore «che non ama le storie e non ama i personaggi e che al centro preferisce l’eccentricità e dunque la frammentazione». E di questo anche il lettore meno accorto che scorrerà le pagine del romanzo avrà immediato sentore, trovando poi conferme costanti in tutto il libro. Grazie ad una scrittura che si potrebbe definire interrogativa (ma è poi così semplice trovare un aggettivo che non sia sincretico?), Apolloni si cimenta in un rabdomantismo culturale funzionale ad una visione della letteratura irrazionale e cosmopolita, già presente in Gilberte e nei Racconti patafisici e pantagruelici. Qui l’ambientazione è il Marocco e la Francia, i popoli sono quello berbero e quello arabo, i protagonisti francesi e marocchini, ma il motivo di fondo resta pressoché inalterato: un’affabulazione inarrestabile ed elitaria, che non si stanca mai di sperimentare. La trama narrativa si adatta così ai percorsi dello scrittore siciliano: Marrakech e Parigi sono due realtà distanti, ma non poi così lontane, moderno e postmoderno sono ben rappresentate da entrambe le città e la spola della protagonista si traduce ogni volta in uno stimolante cambiamento di setting. Apolloni si trova decisamente a suo agio nella realtà francese, specie nella rappresentazione delle idiosincrasie e dell’integrazione della giovanissima Fatima (il fatto che una volta giunta a Parigi la protagonista cambi il nome nell’equivalente francese Farat non è di certo una coincidenza). Più rarefatta la descrizione del Marocco e delle sue dune, che oscilla tra onirismo e surrealismo, abbandonandosi a tratti ad un manierismo stilistico che rischia di soffocare la lettura. Così ad Abdel, un tassista marocchino, il narratore fa dire: «io farei anche a meno della televisione. Non riesco infatti più a sognare cariche di cavalli e schioppettate autentiche; bazar e profumi di essenze; dialoghi sul tempo e sul perché delle cose».
Prima di essere un romanzo, Marrakech è una interpretazione romanzesca, che sconfina spesso nell’anarchia e nella sperimentazione. Diventa quindi complicato associare la sua scrittura ad un autore o, più difficile ancora, ad una scuola. C’è qualcosa di lontanamente edipico in questo romanzo, come in buona parte della produzione di Apolloni: l’autore si ritrova procreatore e al contempo vittima della sua stessa opera, che rifiuta di irrigidirsi in una struttura organica, finendo ineluttabilmente per vampirizzarlo. In questo senso si può certamente affermare che nell’opera di Apolloni è presente l’impronta del Finnegans Wake di Joyce e dell’Uomo senza qualità di Musil. Marrakech necessita infatti una partecipazione attiva del lettore, che deve trovarsi abile a districarsi in un intreccio di raffinate citazioni che, a parte qualche incomprensibile svista, tradiscono la cultura onnivora dell’autore.
Per quanto eclettica e cosmopolita, l’opera resta intimamente legata, forse suo malgrado, ad un’identità siciliana originalissima, che rifugge lo stereotipo tardo-gattopardesco per recuperare l’estro, l’ironia e l’irrazionalità sedimentate nella letteratura isolana e volgerla verso una forma di arte totalizzante, che irride l’ordine, il canone, il compiuto. Per seguirne ed apprezzarne la narrazione, il lettore dovrà quindi accettarne l’irriverenza, sopportarne le costanti spinte centrifughe e soggettive, glissare su alcune birichinate stilistiche piuttosto egocentriche. Ma alla fine, se ne seguirà pazientemente le ambage e le divagazioni colloquiali, ne resterà certamente appagato.