Langiu-Portaluri, Di fabbrica si muore

30-04-2008

Morire di lavoro, di Nicola Lovecchio

Il 25 gennaio 1997 Nicola Lovecchio fu invitato al Convegno Internazionale di Medicina Democratica che si tenne all’Università di Milano col titolo “Conoscenze scientifiche, saperi popolari e società umana alle soglie del Duemila: attualità del pensiero di Giulio Maccacaro”. Lovecchio affidò il suo intervento scritto a Maurizio Portaluri perché lo leggesse ai convegnisti.

 
Mi chiamo Lovecchio Nicola, sono aderente e sono impegnato con Medicina Democratica per affermare in fabbrica e in ogni dove il diritto alla salute. Partecipo a questo Convegno su invito del suo Presidente, Fernando d’Angelo, per esporvi la mia vicenda personale.
Purtroppo il mio attuale stato di salute non mi permette di essere presente e pertanto mi farà da tramite il dottor Maurizio Portaluri al quale va il mio grazie.
All’età di 24 anni, nel 1971, sono stato assunto con la qualifica di capoturno del reparto insacco magazzino fertilizzanti presso lo stabilimento Enichem di Manfredonia, e mi sono dimesso per motivi di salute nel gennaio del 1996. La domenica del 26 settembre 1976, quando esplose la colonna di lavaggio dell’arsenico, venni esposto in quell’area contaminata con segni di intossicazione acuta, come risulta dall’indagine effettuata dall’Istituto di Medicina del Lavoro di Bari. Lo stesso Istituto il 13 gennaio 1994, dopo un esame radiologico effettuato, con scadenza biennale, dall’unità mobile all’interno del suddetto stabilimento, mi riscontrava una opacità
polmonare destra (era un adenocarcinoma). Subii un intervento chirurgico presso la Clinica Chirurgica dell’Università di Chieti, cui seguirono radioterapie, chemioterapie, secondarismi polmonari, cerebellari, ossei, ed intervento chirurgico di decompressione spinale.
La mia attività mi portava ad avere un rapporto continuo con l’ambiente di lavoro alquanto polveroso per la presenza di fertilizzanti prodotti in loco (urea, solfato ammonico) e altri provenienti da altri siti quali concimi complessi, binari e ternari. La dirigenza aziendale, dagli inizi degli anni Ottanta sino alla cessazione della produzione di urea (luglio 1993), ha utilizzato la formaldeide, sostanza altamente cancerogena, per migliorare la resa commerciale dell’urea.
A 50 anni, non fumatore, vita tranquilla di un normale padre di famiglia, il caso sembrava far parte di una eccezione alla casistica mondiale, ma discutendone con il dottor Portaluri e prendendo in considerazione sostanze tossiche e nocive con cui sono stato a contatto – arsenico, ammoniaca, formaldeide, polvere di urea e di altri fertilizzanti, gas di scarico di automezzi che circolavano all’interno dei magazzini fertilizzanti oltre agli scarichi indiretti di altri impianti viciniori (ete, oleum, nox, SO3, caprolattame) – ci siamo resi conto che la funzionalità dei polmoni è stata compromessa dall’ambiente di lavoro.
Ho cominciato a fare un’indagine nel mio stesso reparto dove risultavano deceduti, per neoplasie polmonari o intestinali, altri sei colleghi e una ventina sparsi per altri reparti con patologie diverse. Mancano dati ufficiali così come manca un’indagine epidemiologica, ma queste dovrebbero essere fatte da enti sanitari pubblici e non da un operaio; non si hanno poi neppure informazioni sui dipendenti delle ditte appaltatrici che hanno lavorato all’interno dello stabilimento. Tutto ciò ha spinto sia il sottoscritto che Medicina Democratica a presentare lo scorso settembre ’96 un esposto-denuncia presso la Procura di Foggia, mentre il dottor Portaluri presentava una denuncia di malattia professionale presso la Pretura di Foggia che ha già iniziato un’indagine preliminare.
Questa vicenda mi ha dato la forza di reagire a tutto quello che ho subito in fabbrica. Il senso della mia vita è quello di continuare a lottare: voglio vivere, non voglio andarmene così.
Non posso stare seduto ad aspettare che questa malattia mi consumi del tutto e senza aver fatto nulla per riacquistare la mia dignità di uomo.
Dirò ai miei tre figli: vedete, nella mia sfortuna lotto perché ho un debito nei vostri e nei miei confronti. Se sentite di stare nel giusto andate avanti senza alcun timore.
Il pensiero che più mi preoccupa è quello di lasciarli, perché questa terra non offre nulla nel momento in cui hanno maggiormente bisogno, assieme a mia moglie sono la mia forza.
Il male un po’ mi ha cambiato, nel senso che mi ha aperto; ora non ho più niente da perdere.
Parecchi compagni di lavoro si sono fatti vivi e c’è un movimento che si sta diffondendo, composto da chi è sopravvissuto e si sente leso nella dignità della propria persona perché l’azienda ci ha maltrattati nel vero senso della parola.
C’è grande solidarietà ed anche consapevolezza che il prioritario diritto alla salute non deve essere mai subordinato al profitto.
Grazie
Lovecchio Nicola