Qui petrolchimico, ecco come muore un operaio, di Katia Ippaso
I mattatoi fanno il resto, nascondendo quello che la gente non vuol vedere: la putrefazione di una bestia. Con gli uomnini però, no, è diverso. Gli uomini non si possono mandare al mattatoio quando diventano deboli, anche se sarebbe meglio per tutti, se quegli uomini che si sono ammalati di cancro a causa di quello che hanno respirato nelle loro fabbriche, finissero dritti dritti al macero. Anagrafe Lovecchio, il monologo di Alessandro Langiu si avvita ad immagini deflagranti e incisive come questa. Lo spettacolo racconta la storia di un operaio del petrolchimico di Manfredonia morto il 9 aprile 1997 di tumore ai polmoni per le conseguenze di un incidente avvenuto il 26 settembre del 1976, quando una domenica mattina scoppiò all’Anic la colonna di lavaggio dell’ammoniaca e trenta tonnellate di sali di arsenico si riversarono sullo stabilimento e sulla città.
Il testo di Langiu, regista drammaturgo e attore da sempre concentrato su questioni etiche e ambientali, è stato pubblicato in un libro edito da Manni, Di fabbrica si muore, assieme al diario di Maurizio Portaluri, l’oncologo che ha seguito il caso Lovecchio combattendo assieme al suo paziente per l’accertamento delle verità nascoste. I due documenti letti uno dopo l’altro rimandano, con l’ostinatezza di uno sguardo semplicemente umano allo scandalo della storia. Rispetto al quale però nessuno si turba: altri sono i tabù che agitano il nostro immaginario. In questo paese è considerata scandalosa una bestemmia (e si pensi ai processi per vilipendio alla religione che hanno investito i nostri artisti, da Pasolini a Caprì e Maresco), non una morte “bianca” o, peggio ancora, una cosiddetta “malattia professionale”, più difficilmente accertabile del crollo di un’impalcatura. Il problema, forse, è tutto nel colore che accompagna quella morte, il bianco appunto. Perché evoca una caduta silenziosa, invisibile, senza sangue.
Ed è qui che il lavoro di Langiu e Portaluri si fa indispensabile. L’artista e il medico ci aiutano ad attraversare quella zona trasparente, non documentabile da telecamere, una terra fangosa dove finiscono, senza eco, senza fare rumore tutt’intorno, i detriti di un mondo barbarico che veste i panni del mondo civilizzato e industriale.
Anagrafe Lovecchio va’avanti e indietro nel tempo, riscrivendo con una lingua pacata, capace di farsi ascoltare in ogni suo dettaglio, la genealogia del “crimine”. Un figlio della ricca borghesia che da Roma si mette in macchina e arriva fino ai piedi del Gargano, dove viene folgorato dalla vista di un enorme uliveto immediatamente fuori dal Comune di Manfredonia: il perfetto regalo per la festa del compleanno del papà, che andava cercando da tempo un terreno su cui costruire la sua industria petrolchimica. Si sradicano gli ulivi secolari e si mettono al loro posto le radici di cemento. È il 1971: l’Anic crea euforia e lavoro. Cinque anni dopo la prima esplosione. Continuano gli incidenti. Nessuno protesta, con l’eccezione del Movimento Cittadino delle Donne.
A metà degli anni ’90 Nicola Lovecchio fa le prime analisi e assieme a Portaluri comincia a sospettare che il suo tumore abbia avuto un periodo di latenza di diciotto anni. Dalle indagini solitarie dell’operaio partono l’inchiesta e il processo che si concluderà con un’assoluzione. Ed è qui che i due discorsi, quello di Langiu, icastico, a tratti ironico, e quello più intimo di Portaluri, che ricostruisce i colloqui avuti con il suo paziente, confluiscono l’uno nell’altro. Insieme disegnano il profilo di Lovecchio, un operaio generoso che lotta fino all’ultimo giorno non per sé ma per gli altri, per i colleghi ammalati, per quelli che non sanno o non vogliono sapere. Perché nel bianco opaco delle morti bianche finiscono i gesti omertosi, i ricatti, dei padroni, la paura degli operai di restare senza lavoro e quindi senza identità. Grazie all’opera di disseppellimento della verità compiuto prima da Lovecchio insieme a Portaluri e poi da Langiu, alla fine “la zona” appare meno bianca. Escono fuori i colori, il nero dell’inchiostro marca la pagina muta della storia. I contorni delle cose si fanno più chiari. E con essi il richiamo a non rassegnarsi. Mai.