Laura Bocci, La Seconda India

13-05-2013

Le verità intrinseche dell'India e il viaggio on the road di un napoletano alla ricerca di se stesso, di Erminio Fischetti

 
A causa del suo mestiere di traduttrice e linguista (germanista per la precisione), Laura Bocci ha viaggiato molto. Pertanto la sua natura di viaggiatrice traspare perfettamente nei suoi libri. Meglio, potremmo dire che fa parte del tessuto stesso della sua forma letteraria. Alla sua terza opera, “La seconda India” , l’autrice non tradisce questa sua linea, ma anzi l’amplifica fino a far diventare il viaggio l’essenza stessa della matrice della storia narrata, tanto che il trasferimento in India del protagonista Giuliano diventa un percorso di ridefinizione fra Oriente e Occidente, di modelli e di cliché di un popolo dalle molteplici stratificazioni (sociali, culturali, religiose). Un Paese che porta con sé le contraddizioni di bellezze che tolgono il respiro e il vento desolante della morte, una cultura impareggiabile e al tempo stesso un’ignoranza sconcertante. Con “Di seconda mano” (vincitore di numerosi premi tra cui il Rapallo – Carige), Laura Bocci costruiva un tessuto che non era né romanzo, né saggistica, tantomeno autobiografia, ma un po’ tutti e tre gli elementi per cucirli intorno al racconto del mestiere di traduttore; fra Berlino, l’Italia e il Marocco un confronto fra la cultura araba, il Romanticismo tedesco e il mondo editoriale italiano. Con “Sensibile al dolore”, l’autrice invece ricalca i toni delicati dell’amata Anita Nair e del suo “Cuccette per signora” per prendere in esame il viaggio notturno in treno verso una città dell’Europa del Nord di una donna, la voce narrante della storia, che incontra la fragile Anna, distrutta, lacerata da un segreto che le ottenebra la mente. Due romanzi sul femminile che si intrecciano e ricostruiscono i fili della narrazione per mescolare i generi della prosa, l’essenza della scrittura in un concentrato di postmodernismo ricco di guglie e anfratti.
Alla terza opera Laura Bocci non abbandona del tutto il femminile per dedicarsi al maschile, ad un protagonista altrettanto complesso e frustrato come lo era Anna nel suo romanzo precedente. Riprende però ancor di più il taglio postmoderno, i vari registri di genere, tanto che fino alla fine del libro sembriamo proiettati alternativamente fra il saggio letterario e il romanzo di formazione, infarcito di tanta ironia e toni picareschi, armonizzati in una forma di grande eleganza letteraria. Perché l’India, il nostro protagonista Giuliano, dopo due anni stanziato a Calcutta per un dottorato rimasto imprigionato in un computer di un Internet Point locale, decide di esplorarla insieme alle persone a lui più care, la sorella malata, il migliore amico, la donna che ama segretamente ma è troppo inavvicinabile per lui e tutta una serie di personaggi dalle caratteristiche grottesche. Ed è una seconda India, la prima l’aveva scoperta anni prima a Londra, lontana dai cliché internazionali, da banali ritratti patinati di un colonialismo inglese, che ancora culturalmente pretende di dare la sua impronta - pensiamo alla commedia britannica dello scorso anno “Marigold Hotel” di John Madden con le veterane Judi Dench e Maggie Smith o ancor peggio dall’ipocrisia di “The Millionaire” di Danny Boyle -, che si rivela invece dai luoghi e dagli odori che si attaccano addosso, dalla violenza dilagante, dalla povertà più estrema, dalla morte, che sì anche quella si attacca addosso. Ma anche dall’espiazione del senso di colpa, che trova in Giuliano confusamente e allo stesso tempo consapevolmente il modo migliore per scovare se stesso, la sua vita italiana, la città nella quale è cresciuto, Napoli, e le origini siciliane paterne sempre rinnegate, la famiglia, ricca e borghese, ingombrante. Adotta un bambino e la sua madre dodicenne che sembrano rifiorire dalla morte certa nel sole della vita, trova substrati linguistici, famigliari, amicali, corali attraverso i colori di un Paese dai toni luminosi e oscuri.
Centrale è il paesaggio in tutte le sue forme e dimensioni che possiedono una spiritualità che concede un senso nuovo al racconto di viaggio. L’india di Laura Bocci è talmente realistica da trovare una sua nuova dimensione di realismo che diventa magico, come quello dei racconti napoletani di Anna Maria Ortese o dell’India del “Narcopolis” di Jeet Thayl, stratificata come quella descritta da Roberto Rossellini nei suoi documentari per la Rai alla fine degli anni Cinquanta. Perché “La seconda India”, che si avvale di una notevole e numerosa analisi letteraria degli autori stessi di quel Paese, come il Salman Rushdie de “I figli della mezzanotte”, Anita Desai, Vikram Chandra, trasuda da ogni poro cultura e amore per essa, che trova spazio attraverso i libri, la religione, la natura, le strade di Calcutta e Mumbai. Città descritte per quello che sono, per come le vedono gli indiani, per come le vedono gli Occidentali, per come poi entrambi vedono la natura, le campagne, la vita di quel posto che certo nel bene e nel male non lascia indifferenti. Come non lascia indifferente il libro di Laura Bocci, presentato da Lidia Ravera e Walter Pedullà fra i 26 concorrenti di quest’anno al premio Strega (peccato non ce l’abbia fatta a rientrare nei 12). Un viaggio on the road che affascina e commuove, fa ridere e desta il lettore, proprio come l’India, in ogni suo anfratto, in ogni poro che è ogni lettera di un vissuto che la scrittrice prende da quella cultura e la fa sua, proprio come il suo protagonista Giuliano.