Laura De Biagi, Esilio in erba

01-05-2006

Lontano dai talk-show, di Paolo Teobaldi

Ogni anno in Italia escono circa 50.000 (diconsi cinquantamila) libri nuovi. A conti fatti, sono più di 4.000 (quattromila) libri al mese, i quali, escludendo le domeniche e le feste comandate (giorni in cui i corrieri non viaggiano), fanno una media di 160 (centosessanta) libri al giorno: una marea che sconcerta anche il più volenteroso dei lettori.
Le cause di questo tsunami quotidiano, che per paradosso colpisce un paese come il nostro dove storicamente si legge poco sono molteplici.
Ne accenno solo due. La prima è l’idea, sempre più diffusa negli ultimi anni, per cui la letteratura è (sarebbe) una specie di divertissement, in pesarese badurlo, intelligente quanto si vuole ma fine a se stesso (vendite escluse, ovviamente), senza implicazioni etiche di alcun genere. La seconda, collegata alla prima, è molto più antica ma ugualmente dura a morire: il pregiudizio arcadico per cui la scrittura si colloca (si collocherebbe) nello spazio vuoto, nel limbo del non-lavoro. Insomma: oggi non ho niente da fare, fuori piove (oppure c’è il garbino). Sai cosa ti dico? Io scrivo un romanzo, anzi versifico…
 
Se però si tiene botta, al lettore attento capita ogni tanto di trovare una perla: tale è, a mio giudizio, l’ultimo libro di Laura De Biagi, da poco in libreria, Esilio in erba, con una breve, acuta prefazione di Enrico Capodoglio.
Si tratta di una raccolta di poesie composte tra il 1997 e il 2002, che però ha alle spalle una lunga serie di raccolte poetiche, già apprezzate da critici e lettori molto esigenti, che è il frutto di una ricerca continua condotta su diversi fronti.
Laura De Biagi infatti, oltre alla (prima, dopo, accanto alla) Poesia, ha sempre svolto il lavoro di insegnante, cioè è andata quotidianamente a scuola, il fronte dove si fa e si disfa la lingua delle generazioni; in più ha animato per oltre vent’anni la redazione del “Gusto dei contemporanei”, curando personalmente alcuni dei quaderni più preziosi dell’omonima collana, magari senza firmarli: in particolare il “Quaderno” n. 4 (Mario Luzi), il “Quaderno” n. 5 (Edmond Jabès). In Esilio in erba si ritrovano le caratteristiche migliori della De Biagi: la tensione etica abbinata a un linguaggio terso, che accompagna il lettore dal primo verso della prima poesia E quella che tu chiami solitudine all’ultima strofa dell’ultima poesia: “Poi venne il freddo / labirinto del pensiero: / le strade strette / di un portone nero”.
In fondo, siamo davanti a una delle rare, calibratissime uscite pubbliche (dato che pubblicare un libro vuol dire sostanzialmente uscire allo scoperto) di un’autrice molto riservata, che vive appartata nella campagna tra Pesaro e Fano. Già il titolo Esilio in erba rimanda a una posizione defilata, sopraelevata appena quel tanto che basta per osservare con chiarezza il paesaggio circostante, e per seguire con uno sguardo partecipe i mutamenti in atto nella nostra società e i suoi tormenti: come il grande Raffaello Baldini dai pochi metri del suo paese, Sant’Arcangelo di Romagna.
Due sono i punti fondamentali di questa raccolta, già sottolineati da Capodoglio nella prefazione.
Il primo è un’idea di alta letteratura, tutta agli antipodi della vulgata televisiva per cui lo scrittore è un tizio fortunato che va regolare, che pubblica un libro all’anno, che presenzia ai talk-show, che vende migliaia di copie, che scala le classifiche, che vince premi, che rilascia interviste, che firma dediche… (segue fattura). Quella della De Biagi è una poesia d’altissimo artigianato, nel senso più nobile del termine, fatta di studio, di passione (che carico di significati in certe parole!) e forse anche di fatica, di scritture e riscritture, di cancellature, di prove buttate fino ad arrivare al distillato finale (non è un caso se una delle sue prime raccolte si intitola Grumi). Sono pagine che dialogano con altri autori, di oggi (i famosi contemporanei) o del passato (che poi siano italiani o di altre culture è irrilevante): gli italiani Mario Luzi e Giorgio Caproni; l’inglese Katherine Mansfield; l’egiziano (o francese?) Edmond Jabès, o la misteriosissima (almeno per me, nella mia ignoranza) Nosside.
Un secondo formidabile aspetto, evidente in tutta l’opera della De Biagi, ha a che fare con la sacralità della parola e risale, come è logico e giusto che sia, alla prima infanzia, alla scoperta appunto della magia della parola e dei parlanti che ci circondano e che sanno narrare. Da questo nucleo scaturiscono versi che hanno una pregnanza di sapore biblico. Insomma in questo piccolo-grande libro (piccolo per il numero delle pagine: poco più di 100)i vivi e i morti parlano e danzano con eguale forza e con eguale dignità (direi con uguale leggerezza, ma ho un conto aperto con questa parola). Basta solo leggere, o forse meglio recitare come un’orazione, le parole di Ti scandisco in sillabe, dedicata a un’amica scomparsa: solo per l’anagrafe però, nella realtà “presente e viva”.
Alcuni decenni fa la rivista “Quaderni piacentini” pubblicava regolarmente una rubrica provocatoria, non da tutti amata, che si intitolava Libri da leggere / Libri da non leggere.
Ebbene, Esilio in erba di Laura De Biagi rientra sicuramente tra i libri da leggere; anzi da leggere e da rileggere.