Un coltello divise la città in due, di Vito Antonio Leuzzi
Sulle complesse vicende della strategia della tensione e degli anni di piombo, che dal 1969 sino ai primi anni ’80, per oltre un decennio, hanno segnato la storia dell’Italia repubblicana, si misurano oggi diversi tentativi di recupero della memoria e di riflessione storiografica. L’assenza in molti casi di una verità giudiziaria sulle stragi, sulle vittime del terrorismo e della violenza, rende difficile soprattutto per le nuove generazioni rendersi conto di ciò che è realmente avvenuto in quella particolare stagione politica che è al centro dell’attenzione, considerato il successo di dibattiti, pubblicazioni e trasmissioni televisive.
La ripubblicazione trent’anni dopo di un libro-inchiesta di Pasquale Martino e Nicola Signorile, Le due città. I giorni di Benedetto Petrone, curata ora per Manni editore da Nico Lorusso e Ignazio Minerva (con una presentazione di Nichi Vendola), rappresenta un’ importante occasione per aprire una riflessione organica su vicende che si proiettano in un contesto nazionale, ma che evidenziano anche la particolare situazione di Bari, attraversata negli anni ’70 da profondi cambiamenti politico-sociali e culturali. Il libro fu edito dalla Libreria Cooperativa nel 1978, alla vigilia del primo anniversario dell’uccisione di Benedetto Petrone, un giovane operaio barese militante del Pci pugnalato a morte da una squadra di neo-fascisti del Msi, il Movimento sociale di Almirante, la sera del 28 novembre 1977, nei pressi della prefettura di Bari.
Nell’interessante post-fazione alla nuova edizione, Pasquale Martino e Nicola Signorile non celano l’angolo visuale degli autori, tutti militanti di sinistra, e, in particolare, l’assenza di un capitolo finale relativo alla vicenda giudiziaria, che si concluse nel 1981 con la condanna di Giuseppe Piccolo a 22 anni ed a pene molto miti per i coimputati. Dopo tre anni un «suicidio riuscito» tolse di mezzo l’autore materiale del delitto.
«Il libro-inchiesta» ha il merito di mettere in fila i fatti, attraverso una lettura serrata della stampa dell’epoca, e di evidenziare le due anime, quella legalitaria borghese e d’ordine e quella extralegale e violenta del partito di Araldo di Crollalanza, di De Marzio e di Peppino Tatarella, «il giovane leone» del Msi barese. «Il fascismo barese e pugliese – si legge nel volume – nei primi anni ’70 è già vicinissimo alle centrali della strategia della tensione. Per la Puglia passano i contatti con i colonnelli greci, si organizzano traffici clandestini, spionaggio e campeggi militari. Fascisti baresi fanno parte della comitiva dei trenta partecipanti al viaggio d’istruzione del ’68 nella Grecia dei colonnelli, dove vengono addestrati».
Nel volume s’impongono all’attenzione la puntuale ricostruzione della vita di Petrone, i momenti che precedono il brutale delitto, lo «sgomento» provocato dalla diffusione della notizia e, in particolare, l’atteggiamento dell’informazione. Benedetto era molto conosciuto nella città vecchia. Di famiglia poverissima e con il padre disoccupato, aveva dovuto combattere per superare il trauma della poliomielite contratta da bambino. Le condizioni economiche familiari lo costringono ad interrompere gli studi (aveva frequentato l’istituto tecnico Romanazzi) e a lavorare come manovale. L’impegno politico nel suo quartiere per il risanamento del borgo antico, per il diritto alla casa e per il lavoro, evidenziano le sue scelte ideali e lo sottraggono alla diffusa emarginazione.
La vita di questo giovane proletario e la sua fiducia in un mondo migliore furono cancellati in pochi istanti da quella sciagurata spedizione punitiva da parte di una squadra di neo-fascisti che agiva impunemente da molto tempo. L’assassinio avvenne sotto le finestre della Prefettura ed a poche decine di metri dalla Questura centrale. Benedetto Petrone e altri giovani militanti della Fgci furono aggrediti da un nutrito gruppo di missini armati che utilizzarono come base la sede del Msi in via Piccinni. Benedetto non riuscì a sottrarsi all’aggressione anche per le difficoltà a camminare.
In pochi istanti la notizia si diffuse in tutta la città. I redattori e i cronisti della “Gazzetta del Mezzogiono”, che accorsero sul posto, imposero alla direzione, sempre attenta ad evitare di rompere il consueto moderatismo, un titolo senza equivoci: «Squadraccia missina uccide a Bari un giovane comunista». Tuttavia nella stessa mattinata in seconda edizione, il titolo mutò: «Feroce aggressione a Bari: giovane comunista ucciso da estremisti di destra».
A poche ore da brutale assassinio si tentò, dunque, di «ovattare e di ridimensionare i fatti». Questo obiettivo che ben rifletteva le scelte della classe dirigente, preoccupata di non rompere vecchi e consolidati equilibri, fu ben presto raggiunto anche in considerazione della campagna di stampa contro «gli autonomi» e «gli estremisti di sinistra» sulla pagina barese del quotidiano “Il Tempo”. «Su Benedetto – si legge nell’introduzione di Vendola – si giocò con le piccole insinuazioni e con le diffamazioni allusive: forse la droga, forse la marginalità, forse la sua radice sociale lo avevano portato a morire. Poi calò l’oblio».