Così la letteratura europea parla dei giovani, di Eliana Forcignanò
Di identità giovanili si discute molto al giorno d’oggi: affrontano la questione discipline quali psicologia e sociologia, tuttavia, anche la critica letteraria sembra avere le carte in regola per dire la sua, perché i giovani sono sempre stati fra i protagonisti della letteratura e, nel Novecento, questa fondamentale presenza si è mutata e tradotta in aperta rottura con gli schemi del passato. Dal “romanzo di formazione” al giovane “scapigliato” in aperto conflitto con il mondo circostante e con i valori da esso proposti: l’emulazione della figura paterna, il rispetto per la tradizione, il bisogno d’introiettare modelli appartenenti a generazioni passate cedono il passo a istanze di “auto-formazione” e “auto-educazione”. Si rivendica, da parte del giovane che si affaccia alla vita, la libertà di seguire una strada propria, una propria “vocazione” al di là della guida, pressante e non più richiesta, degli adulti.
Un argomento davvero interessante quello de Le identità giovanili raccontate nelle letterature del Novecento, nonché il titolo di un Convegno, tenutosi circa due anni fa presso l’Università degli Studi di Lecce, i cui atti, a cura di Carlo Alberto Augieri, sono stati pubblicati di recente da Manni Editori.
Augieri, studioso di Critica letteraria e Letterature comparate, apre il volume con un’importante considerazione sullo status attuale della “questione giovanile” così come essa si è sviluppata nel mondo che ci circonda e che appare lacerato da un profondo conflitto generazionale: da un lato, gli adulti inclini a reputare i giovani immaturi e incapaci di crescere e assumere determinate responsabilità,, dall’altro, i giovani che non hanno alcuna intenzione di crescere e uniformarsi alla dimensione adulta connotata da un’innaturale e quasi ridicola tendenza a rimanere giovani “a tutti i costi”. In breve, i giovani hanno tanta paura di crescere quanto ne hanno gli adulti d’invecchiare. Apprendiamo, così, rammentando la giusta osservazione di Franco Moretti citata da Augieri, che la gioventù non è per l’Occidente una fase della vita, bensì un valore da custodire il più a lungo possibile, un segno di distinzione che rende orgoglioso chi lo possiede. La maturità, la senilità venerate ai tempi dei latini –i capelli bianchi erano, nell’antica Roma, segno di saggezza– sono un incomodo per l’Occidente novecentesco, epoca in cui si consuma inesorabilmente il declino della figura del “vecchio saggio”. D’altra parte, i giovani si rifiutano di abbandonare l’età dell’adolescenza per entrare in quella adulta. Scrive Carlo Alberto Augieri a tal proposito: “[…] Non voler maturare (formarsi) fino alla meta di diventare adulto significa, soprattutto, non inserirsi in una dinamica culturale a carattere finalistico, teleologico, tendente al traguardo concludente dell’avere un’ ‘identità’ forte e ben caratterizzata, che una cultura stabilisce e rappresenta come ethos dell’essere responsabilmente adulto”. (Op. cit. p. 10)
Viene in mente la dialettica hegeliana, la lotta per il riconoscimento fra autocoscienze che, però, qui subisce un curioso rovesciamento: l’autocoscienza del giovane non lotta per ottenere, da parte degli adulti, il riconoscimento che gli consentirebbe di entrare nel loro mondo, bensì lotta per rimanere ciò che è e per essere riconosciuto in quanto “identità giovane”. Nella dialettica “servo-padrone”, era il servo che, attraverso la piena padronanza del proprio lavoro e, dunque, la capacità di soddisfare bisogni, finiva per legare il padrone alle proprie abilità e diventare egli stesso “padrone”. Il giovane, invece, non ha alcuna intenzione di vincolare l’adulto, di mostrarsi, in un certo qual modo, capace nei suoi confronti, bensì vuol rimanere giovane e seguire la strada che si traccia da sé. Suo obiettivo non è vincere l’adulto sullo stesso piano, bensì, rendersi libero e distaccarsi dall’opprimente tradizione. Insomma, fra mondo adulto e mondo giovane rimane l’antitesi: la sintesi, l’Aufhebung è ancora una chimera e tale constatazione è valida nell’analisi dei romanzi del Novecento, quanto nella società attuale.
Il volume edito da Manni raccoglie una serie di pregevoli contributi offerti da insigni studiosi. Qualche nome: Franco Brioschi, Remo Ceserani, Giulio Ferroni, Giovanni Invitto, Romano Luperini, Giovanna Scianatico, Mario Sechi, Mario Signore. L’insieme di questi contributi restituiscono una visione a trecentosessanta gradi dell’argomento, fornendo al lettore gli strumenti necessari per una conoscenza dettagliata della questione. L’indagine non si arresta alla letteratura italiana: Anna Maria Piglionica ci parla de L’identità di Paul Morel in Sons and Lovers di D.H.Lawrence, mentre Alizia Romanovic descrive nelle sue linee essenziali il postmodernismo russo. Fra gli autori della nostra Penisola spiccano i nomi di Verga, Pirandello, Tozzi, Pasolini, Morante: un viaggio affascinante nel nostro patrimonio letterario che viene ripercorso con una chiave di lettura nuova, attraverso la quale i personaggi presenti nelle singole narrazioni oggetto di studio acquistano uno spessore, un significato “altri” rispetto a quelli tradizionali. Pensiamo, per esempio, a I Malavoglia del Verga e alla contrapposizione del giovane Padron ’Toni: quale miglior esempio di conflitto generazionale? “Con ’Toni –scrive Romano Luperini– estraneità e scissione diventano le marche distintive del personaggio del giovane nella modernità”. Si tratta, infine, di una scissione anche fisica, poiché il giovane dei Malavoglia è, a conclusione del romanzo, costretto ad abbandonare Trezza e il mondo di valori arcaici che tale luogo rappresenta. Potremmo citarne altri di esempi e tutti renderebbero più esplicito, sebbene in circostanze e luoghi differenti, il conflitto fra padri e figli. Conflitto in cui, ancora oggi, siamo immersi e del quale diventa sempre più difficile delimitare i confini.