Passione civile, valore inattuale, di Milva Maria Cappellini
A chi consideri la qualità e la sostanza dell’attuale, appare chiaro e scontato come la letteratura abbia il dovere dell’inattualità, nel senso della resistenza, della contestazione, dello sdegno, dell’utopia. Il romanzo di Lia Tosi Anonimo povero si dichiara inattuale a partire dal titolo, che ribalta l’aspirazione ormai probabilmente universale a essere - prima di tutto e sopra a tutti - ricco e famoso. Inattuale è l’ampiezza del romanzo, mèmore della smisurata disposizione umana a narrare e a narrarsi; inattuale è la trama, molteplice e fluviale; inattuale è lo stile, polifonico e multilinguistico (Dostoevskij, Gadda e Dante sono tra i numerosi, alti numi tutelari di questo libro); inattuale è la complessità, che chiede al lettore – in tempi in cui è così confortevole lasciarsi sedurre dai demoni della facilità – la buona fatica di una lettura attenta. Ma soprattutto è inattuale la rete di valori che reggono, dando sostanza e senso, la narrazione.
L’esordio ricorre a un espediente illustre, quello dello scartafaccio ritrovato, complicandolo: i Venusti, cinque codici ritrovati in un assai remoto futuro e studiati da un erudito di nome Naevius Pepicus Gnei, contengono frammenti attribuibili a uno o più autori persi in sterminate antichità e accomunati dalla condizione dell’esilio e dall’attitudine allo sdegno contro il proprio tempo. Se la letteratura del passato è condannata a essere un «Poema disperato […] per le scarsissime speranze di trovarne una visione certa e completa», il filologo è impegnato a cercare, ricomporre senza tregua frantumi e tracce, poiché il tempo ingiuria e confonde, e la verità si intravede solo se si ricuce laboriosamente, con gran lavoro e acuta pietas. «La poesia – scriveva Mandel’štam, di cui Lia Tosi è traduttrice – è un vomere che ara e rivolge il tempo, portando alla superficie i suoi strati più profondi, più fertili». Fertile per il futuro è la storia, quella grande dei rapporti di potere e dei conflitti di classe, quella appartata delle piccole città, quella segreta delle famiglie e delle persone. I cinque codici (Pappus, Graccus, Venus, Valdo Vaticano, Anguipedes) tracciano l’arco della storia a partire dalla grottesca condizione dell’operaio Cencio, gogoliano campione della subalternità, dell’alienazione, dello spossessamento di sé: «Roba da non crederci, uno, anche ammesso che possa riprendersi, che se ne fa di se stesso? Quando non si è ancora diventati un qualcuno qualsiasi, e non si ha voglia di diventare, l’unico appiglio per il genere vivente è diventare d’un altro».
Nel miserrimo Cencio resta labile traccia dell’umano, in una residua intermittente capacità di provare indistinta pena per l’esistente: «Allora era sbattuto dalla nostalgia allo sgomento, alla più consona soddisfazione del sopravissuto, del vivo, non andato ancora a morto». Lo iato è ampio tra questo primo codice e il secondo, che lega la provincia e la Roma caput mundi mediante vincoli di parentela: il ragazzino Pio Mammoli, pistoiese, va alla ventura nel vasto mondo capitolino, e proprio nel tempo mitico del Sessantotto, affollato di giovani che ritmano in corteo «formule che comandavano al mondo di farsi buono giusto e bello, comodo e accogliente». Luoghi accoglienti sulla terra esistono già, per quanto marginali, inattesi: una cantina romana abitata da gatti e visitata da maghe gattare, una cucina pistoiese in cui - nel terzo codice - regna benevolmente la nonna Teresa, nodo stabile della catena di generazioni, «maestra di creativo affetto», dotata di «potente cognizione di dolore» e quindi quotidianamente impegnata a creare anticorpi, a risarcire, ad «allattare il cervello» di figli e nipoti, «tra una frittata e una farinata».
Convocati e ammaestrati ogni giorno dalla matriarca, i membri della famiglia Anelli «in ogni prossimo vedevano un prossimo da augurargli il meglio, da non fargli male, da tenerlo sotto vetro. Un rispetto curante, lodante, creante, era una funzione umana fondamentale e costitutiva degli Anelli, e c’era una dolcezza intorno a loro, una primavera morale che affascinava i bambini e agli adulti ammorbidiva la vita». E’ la collettività festosa e solidale, la vivente dimostrazione di come sia possibile convivere, aggregarsi, educare («e senza renderti conto, la nonna e le altre filosofe ti intessevano nella mente l’archivio dei saperi per vivere, senza far male, facendosi bene, salvandosi»); è una società alternativa, utopica ma concreta, come quella dei gatti nella cantina o quella dei ragazzi nella soffitta di Campo de’ Fiori.
Nel giardino degli Anelli, domestico luogo di comunicazione con il sacro, il nipotino Pio matura il proprio programma politico: «Giorno dopo giorno, cammin facendo, la fantasia annotava tante piccole giustizie da rendere, persone da resuscitare e risarcire, attitudini […] da reistituire in quel mondo che gli sembrava di dover fare lui, come dire … da lui sarebbe scaturito uno spicchio di realtà sviluppata in una direzione da lui impressa». Questa passione civile è il grande e forte valore inattuale che nutre il romanzo: l’idea della politica come progetto di attenzione e cura, come filologia civile che restituisce voce vera alle moltitudini di anonimi poveri, come pratica quasi familiare e affettuosa ma sostenuta da rigore quasi giansenista, da indomita indignazione contro lo spirito del tempo, «che plasma i suoi uomini a propria immagine, e chi non gli è uguale lo scarica».
Integrale è la contestazione del mercato e della sua logica, implacabile la deprecazione del profitto che avvelena, del «dio che disfa»: «Quando i soldi come allora travolgenti rimescolano le cose del mondo, le leggi, i comandamenti, la miscredenza del denaro è trasversale, compenetra credenti di fedi e di valori anche opposti, la miscredenza del denaro rimescola, commischia, frammischia, contamina sangui e ne genera nuovi, alleanze invisibili, genera esseri dal cuore sconosciuto».
Il penultimo codice (aperto dalla proiezione mitica, se non addirittura ucronica, della politica berlingueriana, in «un paese che finalmente appartenesse alla semplicità e ai semplici», i «semplici di grande qualità») va concentrandosi sulla storia di Pistoia, già «capitale del sonno» e ora sedotta da «una visione di sviluppo grettamente aderente all’esistente che ci consumerà». Anche qui, viene «subdolamente in uso uno stile chiassoso, nel denaro, nel fare, nel comperare, nell’avere». Cacciate le ninfe benevole, la città si consegna all’«avido denaro» che anche qui «edace rode, corrode ed erode i cromosomi della natura delle cose». I politici più o meno locali, accomunati da attualissima rapacità, promuovono una modernizzazione scellerata che culmina nella decisione di violare un luogo sacro (lo spirito del tempo, del resto, assassina il senso mitico e popolare del sacro), di «rimuovere, sradicare, espiantare il totem solido della fertilità cittadina»: il quasi millenario Ospedale del Ceppo.
Pistoia diventa così, nell’ultimo codice, definitivamente «Pisdue», in balia dei turpi anguipedi, sfregiata da una proliferazione urbanistica perversa: «Escono di queste neoplasie nei tessuti urbani, nei collettivi umani. Una città un giorno si sveglia col suo doppio, che le cresce addosso, che la soppianta, e la cittadinanza si sveglia a vivere trasognata e tonta dove sui diritti c’è la data di scadenza, altri tempi, signora, non vede, è segnato qui». Gli abitanti, storditi, reificati, ormai posseduti dalle imprese di costruzione o immobiliari, finiscono per assomigliare sinistramente al Cencio del primo codice. Rimangono zone di tenace resistenza, rimane «l’allegria etica» della terza Teresa, rimane la caparbietà di «una ragazza del Sessantotto […] cui è rimasto in mente un voto pronunciato silenziosamente di onesta povertà, di anonimità intensamente spesa in una dignità irriducibile, che non si fa pestare e non fa pestare».
Rimangono i grandi libri, oggetti inattuali per eccellenza e vocazione, rimane «quest’eco, questo plurimo testamento lanciato attraverso il tempo e il mondo, da scrittori a lettori, da scrittori a eredi che li resuscitano, ripercorrendo il loro experimentum mundi».