C'è uno scrittore che si narra con i libri altrui, di Cosma Siani
Da tempo l’editore Manni getta ponti fra la lontana (diremmo con un po’ di retorica) Lecce e il resto d’Italia. E ora raggiunge l’altrettanto “lontana” Torino, perché è lassù che vive e lavora l’autrice del volume Del raccontare. Lidia De Federicis è ben nota a chi segue libri e recensioni librarie, perché fondatrice del mensile “L’Indice dei libri del mese” (necessario presentarlo? Ventidue anni di vita celebrati questo 2005, una reputazione consolidata in Italia e fuori, linea editoriale netta ma non elitaria, politica culturale aperta ma non equivoca), e ben nota a chi si occupa di scuola e didattica almeno per il fatto di essere coautrice (con Remo Ceserani) del famoso testo-laboratorio per l’insegnamento della letteratura italiana Il materiale e l’immaginario.
Ma libri e scuola per Lidia De Federicis fanno tutt’uno con la vita, propria e altrui; e ciò emerge nitidamente nel volume in questione, che viene sottilmente giocato in tale chiave sfumata fra critica letteraria e memoria personale, e in tale luce attinge originalità come genere letterario. Lo si arguisce fin dal sottotitolo, “saggi affettivi”, che dando un nome al genere allude a tale sintonia di vita, letture e cultura; e lo si vede patentemente nel primo dei saggi, intitolato Notizie personali, memoria autobiografica e sintesi della propria vita con lo sbocco nel lavorio librario che per l’autrice è divenuto dominante (dovrei dire professionale, ma non so quanto le piacerebbe). Gli altri “saggi” (in numero di tre) sono in realtà capitoli che collezionano brani di respiro più breve entro un proprio filo logico.
In effetti, in un preambolo che, a conferma, è intitolato La trama mia e altrui, Lidia De Federicis cuce insieme tutte queste pagine, originariamente apparse nella sua rivista mensile e (altro legame con la Puglia) in “Belfagor”: riconosce forma narrativa ai suoi saggi, e parla di “andirivieni dal racconto diretto ai racconti altrui”, sostiene che “anche il recensore è uno scrittore”, e che “attraverso il libro altrui, e aprendolo con le sue chiavi o grimaldelli, di sé parla sempre il critico”, dice che nella “trama delle finzioni letterarie, trova ancora riparo e legittimità l’impudicizia propria”; e chiama “impudicizia” il “rinunciare ai ripari della professione per trasferirsi nella scrittura esplicita”.
Lo schema è ribadito nel lungo capitolo intitolato Romanzo di scuola e della modernità, contrappunto di memorie personali esplicite, o trasfigurate in concetti paradigmatici, e riferimenti a libri. E ancora più addentro nei saggi, quando la trattazione è essenzialmente incentrata sui volumi letti, pure trapela l’affermazione: “parlerò di un libro dimenticato per parlare di me” (p. 48).
Personalmente, devo ammettere che sono spiazzato da tale impianto. Sarei stato portato a dire che trovandosi in un osservatorio privilegiato come la redazione della nostra maggiore rivista di recensioni, e avendo attraversato tanta narrativa italiana dell’ultimo trentennio quanta pochi altri, l’autrice era qualificata a darci tipi, tendenze, correnti, cambiamenti, deviazioni: cioè il lavoro giornaliero e distaccato del critico che registra dove sta e dove va la letteratura. Sembrava lo facesse nel suo volume precedente, più imperniato sul recensire, e così ricco di autori e opere; e invece, anche il titolo era sintomatico: E tu fingi? Cronache dell’immagine narrativa in sette anni (1995-2002) (Trauben ed., 2002). Ora, nella nuova raccolta qui presentata, l’impostazione si sviluppa in maniera in equivoca; ed è una lezione al critico astratto, che pensa di poter(si) soddisfare con le parole del mestiere.