Le suggestioni di Lidia De Federicis. La responsabilità morale della narrativa, di Giovanni Choukhadarian
“Lo schema, a cui ho pensato scrivendo, prevede una voce disincarnata, mai pigra però (anzi affettiva, emotiva), rivolta a un pubblico presente e assente, mai però casuale. Simili esercizi di scrittura comportano la necessaria simpatia del destinatario”. Così scrive Lidia De Federicis, nell’introduzione ai quattro saggi che compongono Del raccontare. Saggi affettivi. L’introduzione ha un titolo bello e programmatico: La trama mia e altrui. Quando si sente chiacchierare di morte della critica militante, di vanità della critica letteraria, dei conflitti d’interesse fra critici, editori e scrittori, è buona cosa tornare a Lidia, l’imprescindibile Lidia De Federicis. In questa sua ultima raccolta, costituita solo in parte di testi già editi sopra “Belfagor” e “L’Indice”, c’è appunto uno schema, un metodo -anzi tutti i metodi, ma nessuno in mostra, nessuno ostentato- e poi, forse soprattutto, l’affetto, l’emozione, la simpatia per i testi e i loro extratesti. È questa la via lungo la quale si muove Del raccontare, proponendo una responsabilità morale della narrativa e, per conseguenza, anche della critica letteraria. De Federicis ci arriva a partire dal suo personale extratesto, cioè narrando (con la grazia inesorabile che tutti le riconoscono) la sua formazione di donna, professoressa e intellettuale italiana. Sono le Notizie personali, che durano purtroppo una decina di pagine soltanto; le si sarebbe volute più lunghe, ma non è questo il metro di Lidia, che alla grazia unisce, né si vede come potrebbe essere diversamente, la discrezione. Nondimeno, sembra difficile dimenticare, fra gli altri, un passo tale: “Alla libertà delle donne la scuola ha dato un impulso decisivo. E per quanto ambigua e coatta sia stata la via scolastica all’emancipazione, solo grazie alla scuola abbiamo potuto gustare l’avventura dei libri e la parità dell’apprendimento coi maschi, il piacere dell’autonomia che è data dal proprio guadagno, e quello dell’autorità che è data dalla posizione, in veste di presidi e professori e fino al ruolo dei ministri, che è spettato per prime alle due democristiane Falcucci e Jervolino”. Il cosiddetto mondo della scuola può dunque esser letto come strumento di analisi politica e, più in generale, a De Federicis piace perché “è un buon argomento per parlare d’altro”. Così i dieci brevi appunti sulla scuola, che, salva la numerazione di sapore non poi così vagamente prescrittivo, si presentano in realtà come tante aperture, quasi nell’accezione heideggeriana del termine. La scuola è posto (con Lévi-Strauss, uno dei tanti nomi non alla moda cui Lidia De Federicis fa riferimento), ma anche un teatro, un avamposto, un’istituzione e un paradosso. In ultimo, e non può essere un caso, la scuola è delle donne, con i rischi predetti dal Nobel per l’economia Amartya Sen: il futuro dell’umanità dipende dalla libertà delle donne di scegliere se e quanto procreare, e quindi dalla loro istruzione.
Un altro nucleo tematico forte di questo libro sta nel breve dialogo di De Federicis con Massimo Onofri, che chiude il capitolo dedicato al Filo della voce, in cui sono discussi temi come “l’attrattiva per cose ultime” di alcuni scrittori italiani, la laicità e l’agnosticismo, soprattutto l’idea che la letteratura abbia responsabilità conoscitive (ermeneutiche, quindi) ed etiche. È su questa linea che Onofri e De Federicis discutono di dimensione extratestuale del testo. Per Lidia la ricerca è da condursi appunto sul crinale fra vivere e scrivere, dando per scontato che la vita non è in sé sufficiente e nemmeno la scrittura. Il bel ‘problema’ con cui l’autrice sigilla queste riflessioni è quello per cui “un modo di scrivere, anzi di raccontarsi, è un modo di pensare. Un modo di carne, però”.
Oltre alla grazia e all’affetto, tratti propri di De Federicis, questi scritti confermano in lei una generosità e un’apertura affatto rare nella critica letteraria d’oggi; più ancora, e qui soccorre spontaneo il ricordo di Giulio Einaudi, la fiducia nelle nuove generazioni, siano di scrittori o di critici; fermo restando, per quanto mai esibito, il colloquio coi maestri. È l’atteggiamento naturale di chi accetta, e sono parole nelle prime pagine del libro, la sfida della sincerità, o della complessa semplicità.