Ritrovata nell’Archivio Segreto Vaticano una lettera inedita sulla confessione in punto di morte del conte Camillo Benso di Cavour. Ritrattazione mancante o implicita?, di Sergio Pagano
Fra gli elementi positivi che qualche volta presentano le celebrazioni dei centenari o delle ricorrenze periodiche, vi è anche quello — quando si tratti di grandi fatti della storia — di suscitare negli storici e nei ricercatori il bisogno di rivisitare le fonti, di cercarne di nuove, di ripercorrere sentieri di indagini già battuti da altri nella speranza di poter trovare anche solo un piccolo tassello documentario sconosciuto, o non adeguatamente valutato, onde contribuire ad una lettura più critica possibile degli eventi stessi ricordati.
Così è accaduto anche per le recenti celebrazioni per i centocinquanta anni dell’unità d’Italia. Fatti e figure del Risorgimento, mentre venivano celebrate, cadevano sotto la lente degli storici, i quali a distanza dal centenario dell’unità (1961) hanno affinato gli strumenti della loro analisi grazie al concorso di fonti venute in luce negli ultimi decenni.
Anche nello specifico che qui ci riguarda, ovvero la celeberrima morte del conte Camillo Benso di Cavour (avvenuta alle ore 9 antimeridiane del 6 giugno 1861, preceduta dalla confessione sacramentale che lo stesso statista aveva richiesto), si è avuta qualche nuova considerazione, mossa dal legittimo quesito che gli storici di parte cattolica e di parte liberale italiana si sono da sempre posti. Cavour, prima di morire, oltre a chiedere il perdono dei propri peccati e morire quindi in grazia di Dio, ritrattò o non ritrattò la sua condotta politica nei riguardi dell’invasione dello Stato Pontificio? Si avvicinò, sul punto di morte, alla Chiesa e al Papa?
Il problema veniva risolto assai prontamente (com’è ben noto), a pochi giorni dalla morte dello statista, da Gustavo Cavour, fratello del defunto, il quale faceva pubblicamente sapere dalle pagine dell’«Opinione» del 21 giugno 1861 che non vi era stata alcuna ritrattazione. Così risultava anche all’arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni, che ne scriveva il 28 giugno seguente al cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato (Pietro Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele ii dal loro carteggio privato, volume ii, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1951, pp. 268-270). Si fecero ricerche accurate presso i testimoni del trapasso del conte, presso gli archivi torinesi e presso l’Archivio Segreto Vaticano: ricerche che durarono quasi un secolo.
La conclusione unanime degli storici fu ed è negativa: il confessore di Cavour, come vedremo meglio, non chiese e non ottenne alcuna ritrattazione politica perché il suo scopo primario (diremmo il primum bonum), pur se mischiato a una certa ingenuità, fu quello di salvare l’anima del moribondo, non quella di curarsi delle gravi censure ecclesiastiche in vigore. A questo riguardo il frate tenne, dopo la morte dell’uomo politico, un atteggiamento che poteva sembrare, e di fatto sembrò, ambiguo, sfuggente alla Santa Sede e allo stesso Pio IX.
I fatti sono notissimi. Quando il conte Cavour faceva chiamare al suo capezzale il confessore per poter morire riconciliato con Dio, vi andò il francescano fra’ Giacomo da Poirino (1808-1885), allora curato della vicina parrocchia di Santa Maria degli Angeli in Torino, nel cui territorio risiedeva il conte. A tenore del diritto canonico Cavour non avrebbe potuto compiere la sua confessione sacramentale prima di aver rilasciato una pubblica ritrattazione dei gravi atti da lui ispirati contro lo Stato della Chiesa.
Egli era infatti colpito dalla scomunica che Pio IX aveva fulminato il 26 marzo 1860 contro gli invasori dello Stato pontificio e per primo proprio quel Subalpinum Gubernium di cui faceva parte (e che parte) il Cavour. Senza tale ritrattazione — chiariva la bolla di scomunica Cum Catholica Ecclesia — la confessione sacramentale sarebbe stata invalida, e anche l’assoluzione sacramentale sarebbe rimasta priva di efficacia. Il decreto del Pontefice era ben chiaro: ac insuper inhabiles et incapaces esse qui absolutionis beneficium consequantur, donec omnia quomodolibet attentata publice retractaverint, revocaverint, cassaverint, et aboleverint (Pii ix, P. M. Acta, i, volume III, Romae, s.i.t., p. 143). Fra’ Giacomo doveva conoscere questa disposizione, svolgendo la sua opera pastorale proprio in Torino, ed è ovvio supporre che la richiamasse alla mente mentre si recava a confessare un uomo di tanta rinomanza pubblica.
Fatto sta che dai primissimi momenti dopo la morte del conte il povero curato francescano (uomo tutt’altro che ingenuo e certamente integro), interrogato dai suoi superiori canonici sulla sua condotta al letto del moribondo uomo politico per sapere se era o non era stata compiuta la richiesta ritrattazione prima che impartisse l’assoluzione, sulle prime sembrò schermirsi, quindi attestò di aver fatto «sempre il suo dovere».
Interrogato dall’arcivescovo di Torino pochi giorni dopo la morte di Cavour, diede la medesima risposta: «ho fatto il mio dovere», «ho fatto quel che ho potuto». Di ritrattazione non si parlava, sicché continuava a far fede la dichiarazione del conte Gustavo Cavour, la quale si andava divulgando in Europa come monumento alla fermezza politica di Cavour di fronte al Papa, anche in punto di morte.
Nelle sue brevi memorie autobiografiche, un manoscritto consegnato alle stampe nel 1915 da Matteo Mazziotti (Il Conte Cavour e il suo confessore, Bologna, 1915; ristampate in appendice al romanzo di Lorenzo Greco, Il confessore di Cavour, San Cesario di Lecce, Manni editore, 2010, pp. 143-154), fra’ Giacomo ricorda il nervoso colloquio con il Pontefice (se bisogna credere interamente alla sua versione). Il Papa voleva conoscere con certezza se Cavour avesse compiuto una pubblica ritrattazione o meno, ma il frate avrebbe risposto che «non ne sapevo nulla; l’avrà fatta, o non l’avrà fatta non so! Allora il Santo Padre mi disse: E chi deve saperlo?».
Rimproverato da Pio IX per il comportamento, il francescano cercò di trovare una scappatoia: «Il Conte di Cavour mi ha chiesto i sacramenti, lo confessai, e poi dopo averlo confessato disse alla presenza di alti personaggi, che spontaneamente ha chiesti i sacramenti, e che voleva che si pubblicasse su tutti i giornali che lui era cattolico, e che voleva morire da vero cattolico come era sempre stato. A tale confessione del Cavour mi pareva, gli dissi, che la ritrattazione fosse implicita».
Una visione personale delle cose, possiamo dire, ma non priva di una certa razionalità. Di fronte a tale disposizione d’animo di un Cavour morente — pensò forse fra’ Giacomo — sarebbe stato rischioso negargli l’assoluzione e chiedergli un preventivo atto pubblico di ritrattazione formale. Poteva esservi il pericolo di un irrigidimento dello statista e, forse, anche il suo allontanamento dal confessore.
Pio IX, però, non accettò tale versione dei fatti e insistette nel condannare il comportamento del frate, al quale chiese ripetutamente una esplicita dichiarazione pubblica del suo errore. In udienza fra’ Giacomo ebbe il coraggio di resistere: «Santità, gli dissi, mi perdoni, a fare tale dichiarazione non posso senza tradir la mia coscienza ed infamar me stesso, epperò sono pronto a soffrir ogni cosa, anche la morte, piuttosto che cedere».
Tornato nel suo convento a Ripa, per volere del Papa fra’ Giacomo fu avvicinato da diversi confratelli e dal maestro generale dell’Ordine al fine di indurlo a confessare per iscritto il suo errore. Ma fu tutto inutile. Nessuno riuscì a cavare da fra’ Giacomo altro che la solita sua difesa: «egli è sempre fermo in sostenere», scriveva fra’ Bernardino al sostituto della Segreteria di Stato il 2 agosto, «senza poterne rendere ragione, di aver fatto il suo dovere».
La pressione esercitata dai confratelli su fra’ Giacomo riuscì almeno a ottenere che questi scrivesse al Pontefice una sua dichiarazione della celebre confessione. Fu così che il 31 luglio, dal convento dell’Aracoeli dove si recava (forse) per colloqui con i suoi superiori, fra’ Giacomo indirizzò a Pio IX la lettera autografa che trascriviamo fedelmente in questa pagina.
Questo scritto rilevante, della cui esistenza si aveva una vaga conoscenza (Pietro Pirri, Pio IX, cit., ii, p. 401), è rimasto fino a oggi inedito e sfuggì anche alle rigorose indagini di Pietro Pirri, di Giacomo Martina (Pio IX, 1851-1866, Roma, Editrice Pontificia Università Gregoriana, 1986, p. 95) e di altri storici che scrissero su Cavour, su Giacomo da Poirino e sulla celebre confessione (da ultima Erina Russo de Caro, Domine non sum dignus. La controversa conversione di Cavour, Rivoli, Neos, 2008).
Il fatto si spiega molto facilmente: il documento faceva parte di una busta di atti diversi (34 documenti) da Pio VII a Pio IX, raccolti chissà dove e chissà da chi, giunti in Archivio Vaticano probabilmente negli ultimi anni della prefettura di monsignor Angelo Mercati (prefetto dal 1925 al 1955). Quando di recente (nel 2007) è stato ricontrollato e riordinato l’intero Archivio particolare di Pio IX, si decise di farvi confluire i documenti concernenti quel pontificato che si trovavano «fuori posto» (hanno oggi la segnatura: Arch. part. Pio IX, Oggetti vari 2238-2280).
Il nostro inedito rappresenta, in fin dei conti, un piccolo tassello nella complessa vicenda della morte di Cavour, o più precisamente del francescano fra’ Giacomo da Poirino, al quale, in conclusione del suo breve soggiorno romano nel luglio del 1861, non mancò un colloquio al Sant’Officio, che ebbe come conseguenza la proibizione di udire confessioni, la sospensione dall’amministrazione della sua parrocchia torinese (comunicata all’interessato da quella curia arcivescovile) e finanche la sospensione a divinis.
Il buon frate (che malgrado l’increscioso episodio aveva al suo attivo una vita di impegno religioso zelante), pronto naturalmente all’obbedienza, passò il resto della sua esistenza nell’umile osservanza, anche se per lungo tempo dovette restar convinto di aver agito secondo coscienza cercando di salvare un’anima, pur nella trasgressione materiale di un precetto positivo pontificio.
Venne però il tempo della vecchiaia e del più maturo consiglio o di una diversa visione delle cose. All’età di 74 anni, nel 1882, vedendosi ormai al tramonto (morirà di lì a tre anni), fra’ Giacomo da Poirino chiese a Leone XIII l’assoluzione dalle censure alle quali l’aveva sottoposto Pio IX. Anche questo è un prezioso documento, una «perla» recuperata grazie alle recenti ricerche negli archivi vaticani, e in specie in quello dell’ex Sant’Offizio, oggi Congregazione per la Dottrina della Fede (Rerum Variarum, 1882, n. 40, ff. 2-3). La supplica del religioso a Leone XIII fu ritrovata e pubblicata nel 2010 da Francesco Castelli (pubblicata su «L’Osservatore Romano» il 29 settembre 2010, pp. 4-5).
In tale scritto per la prima volta il frate ammise la sua colpa: «accetto la meritata pena e d’allora al presente piango il fallo commesso». L’assoluzione dalle censure venne accordata dal Papa nei primi mesi del 1884, un anno circa prima della morte del francescano piemontese.
Questi e forse ancora altri modesti ma non insignificanti rinvenimenti documentari che gli archivi della Santa Sede possono offrire. E se da un lato contribuiscono alla lettura sempre più solida e critica delle vicende del nostro passato, dall’altro dicono anche della necessità di aggiornare sempre la ricerca documentaria.
Gli archivi, specie i grandi archivi, non si può dire di averli esauriti con una sola missione di studio, fosse pure delle più perite e scrupolose, perché a distanza di tempo, qualche volta anche di tempi lunghi decenni, possono affiorare dalle cosiddette nouvelles aquisitions o dai depositi non ordinati scritti anche inediti, rari e preziosi che la competenza dei nostri archivisti sistema nei luoghi dell’originaria pertinenza.