Ritratto di giovane con tessera in pugno, di Sergio D'Amaro
Archivio rosso di Luca Canali è una storia esemplare dell’altro ieri. È un storia naturaliter anacronistica, dissonante, in controtendenza, sembra quasi un documento, in senso lato, resistenziale. Dentro c’è il segmento importante di una generazione, dal 1945 al 1956: un decennio a dir poco vulcanico e febbrile, in cui si passò per tutti i gradi possibili del sentimento e della passione. Combattere per qualcosa, voler cambiare il mondo, suscitare forze e propositi.
Il racconto stringente di Canali ci conduce nel cuore di Roma, impegnata quartiere per quartiere, dal centro alla periferia, ad organizzare le sezioni del Partito comunista (Canali dirigerà quelle di Trevi-Colonna-Campo Marzio, Monti,Mazzini, Ludovisi e Prenestino). Dopo la bufera della dittatura e della guerra fare politica era come ritrovare una seconda infanzia dell’agire, senza astuzie, cinismi, premeditazioni o tatticismi: «Gli uomini che allora venivano nelle sezioni e nelle cellule non avevano ancora mirato in alto, a compiacersi e giovarsi dell’amicizia dei potenti, a riattizzare le naturali ambizioni, a diagnosticare l’implicito morbo della somma sociale e dei suoi fattori […] Era cioè, senza altri attributi, un’infanzia politica e morale da non rimpiangere, ma anche da non rinnegare contrapponendole l’attuale ‘maturità’ col suo distacco e la sua razionale follia, la sua logica sempre e mai contraddetta, le sue linee di violenza possibilmente pneumatica e di vittoria sia pure vulcanizzata».
Un modo «barbarico», giovanile, albare di fare politica, esponendo le linee essenziali del programma generale e scendendo poi via via all’esame dei problemi particolari del momento e del luogo. Canali, opera, tra l’altro, con artisti e intellettuali provenienti da Portonaccio (un affresco del quale è nell’opera omonima che rivelò uno scrittore quasi dimenticato come Elio F. Accrocca), forgiandosi al fuoco di quanto mai accesi dibattiti. Già prima del ’56, quando per tutti fu ora di scegliere, si era superata la boa di un’epoca: «Passavamo dal ’40 al ’50, e il punto di rottura era lo stesso per tutti. Erano già tutti decrepiti senza saperlo, i cori alpini con pennuzze nel nastro del cappello e calzerotti con nappine tirolesi, le frotte di monache, i pellegrini nel pullman che si lasciavano dietro inni religiosi e lezzo di vagone piombato, e noi trenta-quaranta che nella stessa mattina di capodanno demmo l’assalto all’Ambasciata di Spagna».
Più tardi ci saranno gli scontri coi neofascisti, l’emergere sempre costante di un conflitto frontale. Siamo ad un film già visto, con l’estremismo ideologico, il ripiegamento nella violenza, il muro contro muro. Nel ’56 sarebbe crollato il mito di Stalin, ma sarebbe stato solo l’inizio di una lunga teoria di vicende che hanno portato agli anni ’70, al paradigma incandescente di un paese lacerato: come dire dall’utopia alla P38 e alla Skorpion.