Roma, città aperta e chiusa nell'odio, di Giuseppe Cassieri
«Non è un libro tendenzioso», avverte Luca Canali presentando quest’ultimo romanzo, L’innocenza dei colpevoli, tra i più belli e problematici nel suo patrimonio di narratore. Non è tendenzioso, anche se –precisa la nota– esso è di evidente ispirazione ‘resistenziale’, nel clima di un «revisionismo filofascista che ha punte letterarie di indubbio valore, e ricerche storiche oggettivamente antipartigiane».
Pietas e civiltà contro l’odio barbarico è lo spirito dell’ossimoro captato nel titolo, sul filo ideologico dell’autore: motivare e assumere in sé le «ragioni degli altri», obbligarsi a penetrare la casamatta del «nemico», svelenire il tossico seme delle origini che investe, senza distinzioni, la creatura umana. Caino e Abele possono dunque irridere le categorie mitologiche che li rappresentano e tenersi in gioco solo per giustificare un dualismo artificioso e ingannevole, tale da suggerire un ossimoro ulteriore: la sublimità della violenza.
È proprio la violenza, singola e collettiva, conscia o rimossa, il tema incandescente del libro. A subirla è soprattutto il fanciulletto Luigi Corsieri, frutto delicato di un incrocio classista e al tempo stesso un «classico» di ibridazione sociale: da un lato la ricchezza del buttero maremmano, Salvatore La Rocca, dall’altro l’impoverito conte Gedeone Corsieri; e nel mezzo la dea ex machina, Eleonora, stupenda ventenne, figlia del buttero, che certo non fatica a esercitare il suo potere seduttivo nelle Roma mondana del Duce.
Infanzia e adolescenza di Luigi nei tardi anni Trenta –quando il fascismo è pronto a stringere il patto scellerato con Hitler– ci permettono di cogliere i cupi segni del regime alla vigilia della catastrofe: culto idolatrico, forza muscolare esibita, mistica della lotta e apoteosi della guerra,quale che sia la causa scatenatrice.
In collegio, Luigi scopre la sua oscillante identità («timida gentilezza, figura aggraziata, i capelli biondi, un’aria vagamente femminea») e si lascia travolgere in un rapporto «aspramente voluttuoso» col professore di ginnastica. Poco più tardi subisce lo stupro di cinque compagni della scuola pubblica e piangendo si confida al nonno affannato e disarmato «per quel nipote così diffusamente concupito». Da adulto, Luigi cerca di analizzare quella torbida commistione del proprio essere, ne soffre, si deprime, si umilia, stenta ad assaporare l’abbraccio passionale di una donna, e quando ciò avviene favorisce «per caso» la nascita di una figlia.
La trama è tuttavia ben più complessa e drammatica di quella che sintetizzo. Siamo nella Roma del ’43-44, anni tempestosi che martellano e ribaltano i travagli privatistici; l’individuo, spesso debole, smarrito, è costretto a uscire dalla nicchia e scegliere, con un rude «sic et non», Resistenza o Salò.
Anche Luigi, fin lì fascista grigio-rosa, sfonda la gabbia autarchica, si dirige là dove un ex compagno di liceo, Guido Nutria, fascista nero-tenebra, lo incoraggia a esporsi, a rivelarsi un uomo «vero» monolitico e consapevole della doppia anima che insanguina il Paese; una delle due è quella che si riconosce nella Repubblica Sociale. Luigi fa sua la lezione di Guido Nutria, supera la riottosa voce di coscienza e, saltando il fosso, si avvicina alle S.S. nel ruolo di delatore, dopo quello di imboscato al Vaticano nella Guardia Palatina.
Col delatore emerge nella sua crudezza via Tasso, luogo di tortura che istintivamente ci conduce a Il mondo è una prigione di Guglielmo Petroni, a Via Rasella, alle Fosse Ardeatine.
Di via Tasso, il nobile Corsieri è frequentatore privilegiato: tradisce con zelo, fornisce nomi sospetti, s’intrattiene col tenente Hans Brot, bevono, fumano, s’incontrano «fuori servizio», discorrono di amori, di Mozart, di Vivaldi, di Cervantes e dell’Ariosto… Pian piano, però, il tenente Brot si rivela nella sua disgustosa natura di paranoico e sadico apostolo hitleriano, scuote il residuo pudore di Luigi e subisce la sorte che il collaborazionista, nei panni del vendicatore, sta freddamente preparando.
Il personaggio Corsieri è indubbiamente centrale nell’economia del racconto; è lui l’agnello sacrificale della parabola. Ma per nulla esclusivo.
Il lettore constaterà infatti quale peso e quali diverse proiezioni acquistano coprotagonisti e comprimari. Per citarne qualcuno: oltre Guido Nutria, il fabbro Furiani nell’officina di via Monserrato; la canaglia Toni, amante dell’anziana nonna di Luigi; Carlo Imbriani, collega dell’Università; Gaspare Sequi, giocatore di professione; lo zio Maurizio, architetto, cavallerizzo e dispensatore di gratuita saggezza («Bontà e malvagità sono spesso mischiate insieme. Ma la necessità di giudicare resta»). E poi le donne in crescendo: la signora Olga, prodiga nella segreteria del Gruppo fascista rionale; Letizia, Silvana, Lubia, Gaia, figlia «casuale» di Letizia e Luigi. Ora generose ora proterve, ora al riparo nei palazzi residenziali ora scapigliate, in cerca di cibo e farmaci nel quartiere deserto.
Né vanno dimenticati alcuni passaggi sottilmente poetici: luoghi della città antica, viuzze e botteghe che sembrano incise da Piranesi, la Biblioteca Angelica in piazza sant’Agostino, oasi del sapere e approdo temporaneo del Corsieri, studioso di archeologia…
Senza volerlo, Canali ci offre –tra letteratura, fonti storiche e diretta testimonianza– l’opportunità di compiere un percorso ideografico forse destinato a sparire: la Roma barcollante del ’43-44 sotto un cielo immobile, falsamente ecumenico, con i tedeschi in partenza e gli americani in arrivo. La Roma una e bina, sacra e blasfema, aperta e chiusa: un occhio alla Croce, un occhio a Pasquino.