Luca Canali, Potresti averli già incontrati a una fermata d'autobus

30-09-2005

"Normali" vite da romanzo, di Mario Lunetta


Forse mai come in questi dieci racconti che si direbbero, piuttosto che stretti, diluiti in un titolo che sembra negare quasi con noncuranza la propria funzione (Potresti averli già incontrati a una fermata d’autobus, Manni, pp. 191, euro 14,00), Luca Canali ha voluto offrire, della sua inesauribile produttività, una serie di esempi narrativi che si direbbero scritti prima della scrittura. Canali ha come pochi il senso, la scaltrezza e –mi si passi l’espressione– il fiuto del Grand Rhétoriquer. Sa perfettamente che in letteratura gli effetti sono sempre di secondo grado, e in questo caso sembra aver voluto sfidare se stesso e il lettore in una partita in cui appunto il filtro della scrittura fosse press’ a poco assente, e tutta l’efficacia del testo fosse invece affidata a una miriade di narratori “orali”, perlopiù agenti in presa diretta, senza mediazioni: come in assenza dell’autore che pure, in tutti i casi e, se si vuole, suo malgrado, tutti li riassume e sintetizza con assoluta padronanza. È insomma come se lo scrittore avesse voluto rinunciare a imprimere riconoscibilità alla propria voce, celandone il tono e il timbro non dietro il sipario di una facile mimesi, ma piuttosto comprimendoli in una sorta di “labiale” anonimo, in cui i caratteri artificiali della scrittura d’invenzione si consegnano ha una sorta di parlato non detto, di narrazione vocale, di rievocazione felpata di vicende quasi mai eccezionale.
Nel libro, infatti, tutto è come avvolto da una pàtina opaca, e la scrittura appare deprivata di slanci e entusiasmi per darsi al contrario come resoconto quasi obbligatorio di fatti e persone presi nella macina dura dell’esistenza. Potresti averli già incontrati, così, si pone come una sorta di campionario di episodi, personaggi, situazioni sociali e psichiche squadernate col tramite di una lingua media molto calibrata, che non si dà quasi mai a eccessi espressionistici o a svirgolate sperimentali, come a dire: ecco, la vita è questa, inutile aggiungervi qualcosa; e scorre come un nastro magnetico in cui convivono senza soluzione di continuità orrori e tenerezze, inganni e abnegazioni, memoria e oblio.
Roma, nominata o taciuta, è da sempre l’epicentro poetico di un autore che, come Canali, ne vive dalla nascita quella che si potrebbe chiamare la sfacciata nevrastenia e il torbido incanto. E romane, di atteggiamento e di mentalità, appaiono in gran parte le figure che animano i racconti del libro. Si agitano molto, queste figure, e sono invase più o meno tutte, da un malessere che può sboccare, di volta in volta, nella violenza o nella depressione. Ecco, alla fine la musa profonda di questi racconti è proprio la depressione quell’ossido maligno che mangia il gusto di vivere, deteriora la volontà, paralizza le energie dell’inconscio come se la loro canalizzazione fosse a un tratto irrimediabilmente intasata. Sono uomini e donne, giovani e anziani, gente di scarsa cultura e intellettuali. Canali è abilissimo nel delineare in pochi segni lampanti i lineamenti di una fauna umana molto eterogenea, dalle cui vicende perlopiù negative emerge come in filigrana il contesto di cialtroneria e di canagliaggine che dà alla fisionomia dell’Italia dei nostri anni un profilo così sinistro. Il narratore non forza mai i toni del suo quadro: gli basta riferire, con la serenità quasi imperturbabile di un osservatore assai poco pettegolo, e comunque attentissimo. Ognuno s’insaponi la propria barba, si diceva al tempo della Londra settecentesca di James Boswell: un motto di egoismo iperqualunquistico che potrebbe fare da divisa al comportamento diffuso dei cittadini di un paese come il nostro, che non paiono ormai neppure troppo interessati a distinguere tra qualifica effettiva di cityens o di sudditi.
I racconti di Canali mettono in azione sotto uno sguardo malinconico in forza del suo disincanto, una quantità di scenari. Chi vi si muove deve la sua limitata autonemia allo spazio che gli concede il narratore, il quale pare maliziosamente soddisfatto del vezzo di un’onniscenza che pure non è banalmente tradizionale, naturalistica o documentaria, ma intrisa di tutti i veleni della modernità. Non solo gli esseri umani cadono sotto la sua osservazione impietosa, ma anche gli animali: ed è per questi ultimi che la solidarietà e la simpatia dello scrittore si manifestano in termini in inequivoci. L’uomo, sembra suggerire Canali, è un predatore assai più selvaggio del più pericoloso dei predatori. È una morale hobbesiana, si direbbe, quella sottesa al libro: e alla fine –ma senza alcuna tentazione populistica– il narratore, la cui osservazione svaria con sicurezza da certi ambienti della borghesia possidente alla strada, dai salotti alle palestre (“Il palestrita”), dai contadini arricchiti e traditi (“La vittoria dei figli”) ai politici delusi (“Ritorno alla base”), funge davvero da puro portavoce dei suoi personaggi, sia che raccontino in prima persona una condizione di sofferenza a radice sessuale (come avviene molto efficacemente in “Tre sorelle e due preti”) sia che vengano raccontati come tessere di un mosaico mobile, inafferrabile, oscuro, continuamente dissestato da un disagio che è insieme della società come magma che degli individui come schegge senza collocazione certa.
In questo orizzonte bloccato malgrado il movimento frenetico che lo scuote, la lingua di Canali non agisce come elemento perturbante, ma piuttosto come metronomo privo di écarts bruschi, di fratture repentine capaci di mettere in crisi l’assetto di una scrittura, quindi di un approccio al reale, fondati su un solido, convinto impianto “classico”. È appunto qui che Luca Canali, narratore dell’oggi intensamente educato sulle ricchezze della letteratura latina con cui si è a lungo misurato in veste di traduttore e saggista, sembra recuperare certi movimenti stilisticamente non transeunti, non superficialmente legati all’effimero delle mode: e qui la sua sapienza si snoda nelle viscere e nel buio della nevrosi odierna con grande scioltezza, permettendosi addirittura, in un pezzo come “Sala d’attesa”, un vivido d’après dal Dos Passos di The 42nd parallel.