Esponendosi a tutta la precarietà del suo vissuto quotidiano, Lucianna Argentino si riappropria, in questa silloge, di quanto le sembra più mancare: il dialogo con l’altro. E per farlo traccia le fasi di un tragitto costantemente in cerca di equilibrio, tra un’invocazione inedita/negli occhi e una provvisoria linea di frontiera, mai dimentica, in questo, del ritmico incedere luziano e debitrice, forse inconsapevole, del tono più travagliato (e migliore) dell’ultimo Sereni.
Fatto di poesie monostrofiche e brevi, il diario di questa poetessa è senza data perché, più che in modo inverso, si svolge in un a ritroso circostanziato e consolatorio: la parola enunciata assottiglia così le distanze afasiche che da sempre separano i due sessi, colmandosi per mezzo di un monologo alla presenza di un altro, comunque, assente.
La natura specifica di queste pagine è la sfera più intima e taumaturgica del verbo: è poetando, infatti, che la parola assume una funzione quasi corporale. E probabilmente resta questo il motivo per cui l’espressione alla fine si allontana parecchio dal vacuo frammentismo dell’io-tutti. Qui la brevità diventa processo di conoscenza e luogo unico per l’introiezione, come stanno a dimostrare, innanzitutto, le scelte lessicali più mirate: alcuni tra i più singolari accostamenti – luce nepente, presente sativo, cielo cisposo – denotano una commistione sofferta tra l’anima e il corpo della scrittura. Tra chi, all’origine, prova l’emozione e chi, alla fine, la trasmette.