Un proprio tempo, di Maria Teresa Ciammaruconi
Diario. Perché diario quando i fatti, le persone sono tutti sfuggiti alle maglie della rete? È sfuggito anche lui, un «lui che non improvvisa mai» (p.45), nel cui sguardo la realtà si ridisegna mutilata (p.25).
Diario. Forse per difendere un luogo dove raccogliere i lacerti di quel «nonostante che ci fa belli» (p.16), di quella solitudine che restituisce dignità alla privazione.
Diario. Per costruire con le proprie mani un tempo dove tentare accordi nuovi con un divenire che non ci riconosce; ritrovare, forse, nella sillaba decantata il nucleo generante. Sottolinea Marco Guzzi nella sua nota introduttiva :«quanto più restiamo fedeli all’esperienza reale del nostro travaglio rigenerativo tanto più la nostra parola poetica risuonerà nella sua necessità vitale»
Diario. È un titolo che sembra richiamarsi alla silloge del 1994: Biografia a margine (ed. Fermenti, prefato da Dario Bellezza). Ma tra le due raccolte, oltre ai tredici anni che le distanziano e all’uscita di Mutamenti (Fermenti 1999, con introduzione di Mariella Bettarini), l’Autrice è passata attraverso Panuel (Verso Panuel, Ed. dell’Oleandro, 2003, prefato da Dante Maffìa). «Panuel è il luogo della lotta/ per la benedizione/ il luogo in cui si cambia nome/ perché più nulla accada per disattenzione[…] Per questo mi sorreggo alla pagina/ e procedo verso Panuel» (p.11).
Si tratta di un momento topico nel percorso di Lucianna che riconosce nel luogo biblico (Genesi 32,29) un ulteriore imperativo etico e quindi poetico che la obbliga sulla strada di un ulteriore prosciugamento del linguaggio in virtù del valore sacrale della parola stessa.
Oggi, infatti, il suo Diario è inverso, orientato non al ricordo dell’evento perduto, ma alla composizione del canto rinnegato (p.23), nascosto nel «lento ritirarsi delle cose» (p.22). Ecco lo scarto tra questa e le precedenti raccolte: la perdita della distanza emotiva e linguistica dalle cose. La poesia di Lucianna è diventata tutt’uno con la carne della vita; un coacervo che quasi imbarazza il lettore che talora, in questa presa diretta, si ritrova smascherato e quasi impotente nell’uso dei tradizionali strumenti critici.
È poesia che nel nominare il fallimento sceglie la vita e si arroga il diritto di restaurare «le parole danneggiate dall’incuria» (p.33) e prepara « un’intimità più attenta/ che riconcili i gesti con l’assenza» (p.22). È poesia che fa lievito del dubbio e dentro custodisce il riparo dall’indifferenza.
«La mia vittoria è nell’accoglienza» proclamava in terra di Panuel, ed è accoglienza totale, senza difesa, perché: «…non è per resa o sfinimento/ né sentito dire che il silenzio/ a volte raccolga parole reticenti/ per coniarne di nuove/quando la pagina è spiaggia/ su cui s’arena il senso.»