Dice così l’inizio di una poesia di questo Diario inverso di Lucianna Argentino: Mimetizzata nelle quattro sillabe del mio nome / – oscurata la luce, sospesa la grazia…, dove la poetessa fa riferimento ai significati celati nel proprio nome: Lucianna. In realtà, luce e grazia non sono né oscurate né sospese, s’irradiano invece lungo tutto il libro: la luce di un senso mai banale, anzi vibrante e intenso, ricco di pensiero ed emozione, così ben fusi da conquistare attenzione e rispetto; la grazia di una forma matura e ricca di personalità. L’Argentino sa bene di cosa parla: la sua visione mette a fuoco – è davvero il caso di dire – prima di tutto la propria realtà interiore, a volte inquieta e inquietante (Mi coglie di sorpresa il lento ritrarsi delle cose / alla strenua avanzata degli anni / il perdere di sapienza del corpo). Il suo diario (in versi) è “inverso” forse perché non racconta fatti ma stati dell’anima (non d’animo, si badi), o soprattutto perché è lo sguardo ad essere inverso, cioè rivolto non al mondo ma all’interno di sé, dove le cose si spogliano / di vaghezza per indossare una nitidezza / più prossima alla verità; ciò che inquieta, il bruscolo nell’occhio, diciamo così, è il fatto che qualcosa o qualcuno interviene a disturbare la visione (mi strattona via, dice la poetessa, per cui dell’insieme / sono il particolare che sfugge). La lingua è tesa e precisa, e, certo, le danno risalto anche le preziosità che l’autrice sa inserirvi con propositi chiari e con decisione, cioè mai a caso, mai per pura ricercatezza; se un consiglio le si può dare è quello di non esagerare (come nella poesia di pag. 44, p. e.), proprio perché ciò che per lei è naturale non risulti forzato a chi legge (considerato che la lingua media con la quale oggi si scrive anche la poesia è spaventosamente povera e banale, si capisce che quando ci si imbatte – dico da parte di un lettore minimamente avveduto – in testi come questi si è presi alla sprovvista, sicché delle due l’una: o si gusta piacevolmente quel che viene offerto al nostro palato o, se si è persa la consuetudine alla sapidità della lingua, ovvero per un piatto raffinato come questo, e ci si accontenta dei precotti da banco del supermercato librario, si resta sbigottiti). La fedeltà dell’Argentino al proprio modo d’essere e di sentire paga con la chiarezza della pagina (spiaggia / su cui s’arena il senso), della parola e del verso che la dice: un verso piano, con pochissime inarcature, eppure mosso, mai statico, spesso memorabile, che si fa apprezzare per un suo andamento pacato, quasi lacustre, avvolgente; le metafore sono convincenti. (A volte, come a pag. 48, dove si legge: nell’acropoli del significato, si vorrebbe meno assolutezza; là, penso che l’uso di un articolo indeterminativo e della preposizione semplice avrebbero dato all’immagine una sfumatura in più. Per il motivo contrario, invece, l’indeterminatezza, ovvero la limitatezza numerica degli uccelli – “degli”, appunto – a pagina 50, impoverisce il verso, lo rende opaco e debole). Ma, insomma, la poesia di Lucianna Argentino è onesta, degna di lode e di considerazione, e in maggior misura – almeno per il gusto di chi scrive, fautore di una poesia che nasca da sentimento ed emozione (uniche sue vere fonti), cioè dal sistema nervoso, e che solo nel farsi si giovi dell’intelligenza che è richiesta al poeta, ovvero di pensiero – dopo aver letto i testi di certe “poete” (definizione insensata oltre che scorretta) ritenute di sicuro avvenire.