E insieme al distacco, l’amore, di Alfonso Lentini
Con evidente richiamo ad altri titoli celebri come Canone inverso di Mauresing o ad À Rebours di Huysmans, questo Diario inverso di Lucianna Argentino è un titolo molto esplicito, quasi una dichiarazione di poetica. Attiene infatti al cammino a ritroso, al ribaltamento dei piani, alla capacità di “inversione” tipica della poesia, mentre la parola “verso” (contenuta, come in una scatola cinese in una parola più grande) allude a una sorta di “diario in versi”, dunque a un canzoniere, che è la forma più compiuta della poesia lirica da Petrarca in poi.
E in effetti, come in un canzoniere medievale e nella frammentarietà tipica di tale forma di scrittura, queste poesie raccontano le risonanze interiori di una storia scandita da due estremi: il distacco e l’amore.
Fin dalle prime pagine si parla di sovvertimenti di rotte (“compiuto è l’anno, invertita la rotta….”), di sconvolgimenti cosi radicali da sconfinare in una perdita di identità (“imito me stessa…. come un insetto imita una foglia”) e tutta l’opera è intessuta di rimandi al tema dell’inversione: penso a espressioni come “avvenire senza presente”, “lento ritrarsi delle cose”, insieme a tante altre di simile portata semantica. E la poesia che inizia con “Io sono il bianco lui è il nero” esprime appunto un’intenzione frustrata di rovesciamento dei ruoli.
In questo canzoniere di cristallina purezza si mette dunque in scena la storia amara di una separazione, fatta di partenze, ritorni, ripensamenti, rotture; ma il riferimento ad eventi personali si armonizza con quello, più alto, nel quale la scrittura soggettiva evapora verso direzioni più ampie e diventa altra cosa. Il libro insomma assume una valenza “paradigmatica”, pur senza rinunciare all’espressività lirica (tanto che alcuni versi diventano sussurro, quasi confidenza amicale, confessione).
E insieme al distacco, l’amore. Che, declinato ripetutamente con forza e delicatezza, diventa una sorta di carica energetica che attraversa il libro e sembra condurre a uno smarrimento, a una “perdita del centro” (“ci sono vite senza un centro…”) che dà l’avvio a una sorta di lavoro di scavo dal quale scaturisce il vero punto di implosione di questa raccolta, un viaggio alla ricerca di una “nuova lingua” che però “l’altro” crede impossibile. La valenza paradigmatica parte forse da qui, da una riflessione sulla lingua della poesia e dunque sulla poesia stessa come linguaggio irriducibile alla comunicazione seriale.
Ed in effetti la tessitura ritmica e sonora di questi versi è di alta intensità, anche quando la lingua sembra ricalcare il parlato o semplicemente riflettere frammenti di quotidianità. Le allitterazioni, le metaforizzazioni, i giochi di rimando si annidano fra le pieghe del testo, ma non sono semplici ornamenti che ne impreziosiscono la veste. Sono piuttosto parte integrante di quel tentativo di costruzione di una lingua attraverso la quale la scrittura poetica possa condurre verso un più consapevole dialogo con noi stessi, diventando “estuario, foce di un fiume che si getta in un vasto mare” (come dice efficacemente l’autrice in un suo intervento pubblicato nella rivista “Ali”). Se un libro di poesie riesce anche solo a evocare, a far intravedere e desiderare questo traguardo, ha già raggiunto gran parte del suo scopo, perché è la mancanza di una lingua compiuta il grande vuoto della condizione umana.
Una delle più belle poesie di questa raccolta (quella dedicata a Damiano) parla di un parto. E degli uomini che dopo milioni di anni non hanno ancora imparato a nascere né a morire. Così sono gli uomini: fra le altre cose devono ancora imparare a “parlare”.