Luigi Malerba, Parole al vento

01-01-2009
Intervista su di me, di Patrizia Danzè

Parole al vento di Luigi Malerba, curato da sua figlia Giovanna Bonardi (Bonardi era il vero cognome dello scrittore parmense), non è soltanto un libro di “quattro chiacchiere”, come lo stesso Malerba, ironico prima con se stesso che con gli altri, diceva, ma un libro a tutti gli effetti da inserire nella sua bibliografia. Una bibliografia composita e assai interessante, che inizia dall’esordio memorabile con La scoperta dell’alfabeto, del ’63, una rappresentazione necessariamente obiettiva e verosimile di un mondo statico e antico, dunque irreale come quello dei contadini dell’Appennino parmense, e prosegue su strade in cui l’unica realtà espressiva frequentabile è la rappresentazione multipla, frammentata, contraddittoria della cosiddetta “realtà”, quanto di più complesso e tortuoso esista. Logico, dunque, che Malerba, sacerdote dell’utopia realistica, utilizzi nella costruzione dei suoi romanzi una sua personale geometria, montando e smontando intrecci (non dimentichiamo che lavorò come sceneggiatore per il cinema), imbastendo e nascondendo le strutture narrative, adoperando il non-sense come il paradosso, scardinando l’intreccio per mettere in guardia il lettore, cui pure tiene moltissimo (ha sempre sostenuto con franchezza di scrivere per essere letto non per se stesso), dalla tentazione di riassumere un romanzo o di “descriverne” la trama. Una sfida, la lettura di Malerba, morto improvvisamente a maggio 2008, a ottantuno anni (era nato nel 1927). Una morte in fondo prematura come di chi ha ancora tanto da dire, di chi dell’intelligenza graffiante ma sempre signorile ha fatto uno stile di vita. Quanto si possa rimpiangere la sua parola che cercava di essere onesta nel rapporto con l’altro come nella scrittura, è evidente da questo libro assemblato con amore di figlia da Giovanna Bonardi per eseguire una volontà del padre che aveva cominciato a riordinare già da qualche anno tutte le interviste rilasciate in occasione della pubblicazione dei suoi romanzi, dei suoi racconti o dei libri di viaggi. Ebbene, questo libro ha visto la luce e si legge come un romanzo: a cominciare dalla prima intervista, che la stessa figlia rivolge al padre nel novembre 2007, attraverso interviste disparate che risalgono anche ad anni lontani, scorre l’avventura, biografica e letteraria di Malerba. Si parla di letteratura, di scienza, di storia, di cinema, si affrontano temi come il viaggio, il sogno, il linguaggio, si entra nelle problematiche moderne dell’ambiente, della politica di questa nostra “Italia maccheronica”, ci si sofferma sul privato, la famiglia, i sentimenti, il sesso, l’erotismo, l’amore per la campagna, gli amici, e viene fuori, di intervista in intervista, un Malerba a tutto tondo, una persona incredibilmente coerente, persino nel “gioco” della domanda e della risposta, nonostante il trascorrere degli anni, nonostante le finzioni del vivere e quel non-sense della vita onnipresente nei suoi romanzi migliori. Non per niente, se gli si chiedeva quale personaggio di quale romanzo amasse di più, rispondeva “don Chisciotte”: il cavaliere della Mancha rappresentava per Malerba la libertà di rappresentarsi il mondo contro le pretese di chi lo vorrebbe ordinato nonostante la sua confusa incomprensibilità. Malerba conosceva bene il mestiere di scrittore, ma riconosceva anche la “vergogna” di questa professione, perché scrivere è un gesto privato, mentre pubblicare, se pure necessario, comporta la “vergogna” dell’esibizione in pubblico. Una timidezza audace che fa sì che ogni suo libro fosse per lui un viaggio, più o meno avventuroso, più o meno fortunato, ogni scrittura una sfida, una scommessa, anche se giurava di non aver mai barato al tavolo della scrittura, come neanche a quello del poker. Il suo primo libro, La scoperta dell’alfabeto (un esordio tutt’altro che precoce contemporaneo alla sua presenza nel Gruppo 63), raccontava di un contadino il quale si faceva insegnare dal figlio del padrone a leggere e a scrivere. Quelle parole se le sognava pure la notte, ma alla fine ne contestava l’ordine alfabetico. Sembra di leggervi il percorso letterario di Malerba: perché già sin dal secondo romanzo, Il serpente, del ’66, il linguaggio si fa protagonista per “infrangere” -dice lo scrittore- “violentemente e allontanare i detriti rumorosi della quotidianità”. Lo scrittore, dunque, ha già compiuto quel “salto mortale” (che è anche il titolo del suo terzo romanzo) che gli consentirà tramite la dissacrazione della forma convenzionale della comunicazione l’unico modo onesto di conferire significato all’insignificanza dell’esistenza. Una parola onesta, tuttavia, che non può evitare di essere anfibia, paradossale, “disordinata”, perché la scrittura che scimmiotta il realismo è una delle più clamorose truffe della letteratura.