Luigi Malerba, Parole al vento

17-01-2009
Malerba, detti e contraddetti,  di Andrea Cortellessa

Circa due anni fa Luigi Malerba consegnava a sua figlia Giovanna un archivio straripante di interventi, risposte a questionari e interviste. Rilasciate a partire dall’esordio narrativo, le interviste - realizzate dai migliori giornalisti culturali del paese - hanno accompagnato l’uscita di ogni libro di Malerba, e per certi versi ne costituiscono un diario in pubblico (negli ultimi mesi di vita attentamente ritagliato da lui stesso). Certo non mancano sguardi all’interno dell’officina ma è un altro, mi pare, il senso del libro che esce ora da Piero Manni, il quale ha avuto pure la ventura di dare alle stampe proprio nei giorni della morte di Malerba, caduta l’8 maggio scorso, un suo divertente racconto disperso, Il sogno di Epicuro. [...] Il maggior phare, tra quelli citati da Malerba (ché ce ne sono, ovviamente, anche di disconosciuti e occultati), è senz’altro Italo Svevo. E somiglia molto alla confessione di Zeno Cosini al «dottor S.» il modo che ha Malerba di rispondere (sempre per iscritto, testimonia Giovanna: che fa bene a considerare questo, a tutti gli effetti, un libro di suo padre; nonché, aggiungo io, il migliore fra i suoi ultimi). Le verità risultano dall’incrocio e dai lapsus dei suoi depistaggi, delle sue sempre ironiche mistificazioni. Le quali sono dunque sincere, così come gli altri suoi libri, in quanto riproducono la sfuggente e «inverosimile» contraddittorietà del reale: «A me succede per esempio, dopo aver fatto una affermazione, di venire dal sospetto che possa essere vero anche il contrario. Questa è una delle ragioni per cui ho scritto pochi testi di carattere saggistico».

Non certo alla saggistica, infatti, fanno pensare questi microtesti così accuratamente calibrati: semmai alla scrittura aforistica. Detti e contraddetti, insomma, per usare la formula di un altro phare, Karl Kraus. Sentiamone un paio di particolarmente attuali: «il grande romanzo dell’Ottocento si legge ancora con profitto come si legge con profitto e piacere un poema cavalleresco o un trattato scientifico del Seicento. Ma se si assumono questi testi, che hanno un alto valore letterario, come modelli sociali e strumenti di interpretazione della nostra realtà, si commette un grave errore di prospettiva» (1994); «nei periodi di stanchezza letteraria rispuntano fuori i realismi, massimi o minimi, dove trovano rifugio tutti i travet della narrativa. [...] Compito della narrativa è estendere la realtà, non descriverla, dare la coscienza dei fatti, non i fatti» (1990).
C’è in questi motti un gusto per la cadenza gnomica della saggezza contadina: linfa verbale di una cultura, quella rurale, sempre viva - ancorché senza nostalgie pasolineggianti - nella scrittura di questo avanguardista atipico. Come diceva con un sorriso lui stesso, Malerba è stato «il più facile» fra «gli scrittori cosiddetti ‘difficili’». Non a caso, fra quelli delaa neoavanguardia che pure ambiva a Chiasso, il solo che abbia avuto fortuna durevole, e cospicua, fuori dei patri confini.